Bono Giamboni, giudice fiorentino vissuto all’incirca tra il 1235 e il 1295, fu forse il miglior volgarizzatore duecentesco toscano di opere latine tardo antiche e medievali. Il Libro de’ vizî e delle virtudi è un’opera originale, seppure il suo impianto è debitore in vario modo di Cicerone, Claudiano, Boezio, Prudenzio, Alano da Lilla e altri. L’autore, sotto la guida della Filosofia, si reca al palazzo della Fede. Qui assiste allo scontro tra i Vizi e le Virtù, alla lotta della Fede contro le eresie e le altre religioni, quindi alla sconfitta dei Vizi. Successivamente si mostrano all’autore le quattro Virtù cardinali, che dopo un giuramento lo acquisiscono tra i loro adepti. Dunque, sotto lo schema di una visione allegorica, Giamboni disegna un itinerario morale che porta dal vizio alla virtù, dal peccato alla salvezza. È interessante notare come Giamboni, contravvenendo alle regole del genere di opere di questo contenuto, adotti la prosa invece del verso. La composizione dell’opera si fa risalire agli anni 70 del secolo XIII.

Testo di riferimento: B. Giamboni, Libro de’ vizî e delle virtudi, a cura di C. Segre, Torino, Einaudi, 1968.