Carlo Gozzi compose le Fiabe teatrali fra il 1761 ed il 1765 per fornire un repertorio rinnovato alla compagnia d’uno dei più grandi attori del secolo, Antonio Sacchi, colui per il quale Goldoni aveva inventato Il servitore di due padroni nel 1746. Gozzi spinse il repertorio della Commedia dell’arte non verso il realismo (la via goldoniana) ma verso il fantastico, il miscuglio dei generi, l’allegoria filosofica intrecciata con il buffo e con la satira. Sbaragliò gli avversari. Il Chiari, drammaturgo allora in auge a Venezia, si arrese abbandonando il teatro veneziano. Goldoni se ne andò a Parigi, accettando la proposta di scrivere per la Comédie italienne. L’energia artistica delle Fiabe deriva dall’impasto di cultura aristocratica e popolare, corrispondente alla cultura antilluministica del Gozzi, al suo amore per il burlesco e per l’arcaico, al disprezzo per i gusti dei ceti medi. Il Baretti vide in lui uno Shakespeare italiano, capace di coniugare fantasia, commercio teatrale e poesia. In Italia Gozzi è stato in seguito relegato fra i «minori». Ma nel resto d’Europa, dal finire del XVIII al XX secolo, da Schiller e Goethe ad Hoffmann, dai romantici fino ai protagonisti della rivoluzione teatrale novecentesca, in Francia come in Russia, Gozzi appare come uno dei geni della scena, al quale si torna ogniqualvolta si desidera dare una scossa al sistema delle convenzioni teatrali.

Testo di riferimento: C. Gozzi, Opere. Teatro e polemiche, a cura di G. Petronio, Milano, Rizzoli, 1962.