Quando un anno fa mi iscrissi al laboratorio di narrativa di Julio Monteiro Martins, non avevo idea che i personaggi delle mie storie, come gli uomini e le donne che le avrebbero lette, dovevano essere fatti di carne ed ossa. Una delle prime storie che feci leggere a Julio era scritta in terza persona ed aveva come protagonista una bambina. Si chiamava Margherita e la nonna, alla quale era molto legata, era morta. Quello era il giorno del suo funerale. Quello era anche il giorno in cui la sua mamma, Donna, sarebbe tornata dopo una lunga assenza da casa. La mattina del funerale, insieme al papà che la teneva per mano, passeggiava lungo il fiume mentre lui cercava, senza grandi risultati, di spiegarle il significato della morte. Così Margherita affronta il giorno del funerale con una consapevolezza minima e quasi non riesce a capire ciò che le accade intorno, fino a quando in chiesa vede il “volto morto” della nonna sdraiata nella tomba. La storia mi piaceva e gli diedi un titolo: “Il funerale di nonna Vera”. Il racconto mi parve scritto con una certa cura linguistica, ma, oltre ad una serie di altri problemi che avevo riscontrato nel tempo, quello principale mi pareva essere quello di una certa distanza dal personaggio. Era come vivere una storia attraverso un binocolo, muta e lontana. Mi parve di non esser riuscito a dare la giusta intensità ai profondi sentimenti della bambina in un giorno così tragico per la morte della nonna e, allo stesso tempo, emozionante per il ritorno della madre.

Dopo che Julio ebbe letto il mio racconto, mi diede quello che per me fu il più prezioso dei consigli: “Cambia il punto di vista. Prova a scriverlo in prima persona”. Quelle parole gettarono un bagliore nel buio della mia vena creativa, ma allo stesso tempo mi irretirono. Mettersi nei panni di una ragazzina, mi sembrava a dir poco imbarazzante. Ma quando iniziai a scrivere la mia storia mi resi subito conto del potenziale che portava dentro. Così decisi che Margherita doveva crescere di qualche anno, almeno fino a sette, otto anni, al tempo della morte della nonna e che avrei raccontato la storia al passato dal punto di vista di un’adolescente che ricorda quei giorni. In questo modo mi sarei avvicinato di più a lei e riuscii, come per magia, ad entrare nel mio personaggio. Già dopo pochi paragrafi mi resi conto di non essere più al riparo, come inconsciamente avevo fatto in un primo momento, dalle sofferenze di una ragazzina che ha la mamma lontana, che ha appena perso la nonna e con un padre che non riesce a cambiare le cose. Avevo messo da parte il binocolo per guardare tutto con una lente d’ingrandimento. Iniziai a provare il suo dolore, ma sapevo che era necessario. Alla fine della storia, Margherita, nel ricordo di quel giorno in cui la nonna era morta e la mamma partita per non tornare più, ha come la sensazione che qualcosa gli entra nel petto per strappargli via un pezzo di carne. Ero arrivato a sentire quel dolore, un dolore fisico. Finito il racconto decisi di intitolarlo proprio così, “Carne”.

© Antonio Lanza