Quando ti iscrivi a una scuola di scrittura creativa, pensi: adesso scrivo l’opera che cambierà la storia, e da lì inizi a rinchiuderti in una mare di libri diversi, in modo tale da non scopiazzare nessuno, ogni tanto ne apri uno a caso, leggi una frase, un dialogo, un passaggio, chiudi gli occhi e pensi: posso farlo anch’io.

L’idea era quella di una critica radicale della società psicoliberista, una sorta di 1984 del futuro, senza dimenticare lo stile grottesco alla Brazil, ambientato in una città alla Cavie di Palahniuk, con dei personaggi psicolabili e socialmente pericolosi. Sentivo di avere il mondo in pugno, ne ero certa, avrei scritto un romanzo dal contenuto esplosivo. Il guaio fu che quando feci leggere le prime settanta pagine del capolavoro ai miei prof ed editor, Enrico e Paolo, presi una di quelle bastonate che ricorderò per il resto della mia esistenza. Enrico diceva che i personaggi, che all’inizio sembravano funzionare, avevano perso intensità, mancava un vero antagonista, o meglio, lo tenevo nascosto quasi ne avessi paura, era come se volessi a tutti i costi forzare la storia verso la direzione prestabilita, senza tuttavia ascoltare ciò che i miei personaggi chiedevano. Paolo mi disse che l’idea era buona e anche le prime pagine, una cosa mancava, però: non avevo ammazzato il cane, per dirla alla Murakami. Intendeva dire che non avevo sacrificato nulla di realmente essenziale, mancava il cuore nella mia storia. C’era una sola cosa da fare: buttare tutto e ricominciare.
– Da quanto tempo non esci? – domandò Paolo, accorgendosi forse del fatto che tra me e un cadavere le differenze tendevano a ridursi progressivamente.
– Settimane, – risposi – forse mesi.
– Ecco, brava, allora prenditi qualche giorno di pausa, vatti a fare una passeggiata – disse Enrico.
Così seguii il loro consiglio, uscii con un mio amico del corso di narrativa e andai a Villa Borghese, era una domenica di aprile, la luce del sole illuminava il prato. Il mio amico era in vena di domande, mi chiese come mai avessi deciso di trasferirmi a Roma. Cominciai a raccontargli di Bari, di alcuni posti che avevo frequentato, del fatto che un po’ mi mancassero ma che se fossi rimasta, se non avessi provato a fare il salto nel vuoto, non avrei mai concluso niente.
– E che posti hai frequentato? – mi chiese.
Gli dissi che vivevo in due mondi: di giorno studiavo come non mai e poi, la notte… la notte era una porta verso l’inferno, o il paradiso che dir si voglia, ogni giorno ci si inventava qualcosa di incredibile, l’estate si facevano i bagagli e si fuggiva in autostop o in treno, non si tornava a casa per settimane, d’inverno i sabati cominciavano il venerdì, tutti stipati in macchina per raggiungere posti incontaminati, casolari abbandonati nel cuore delle campagne pugliesi, si allacciavano un paio di casse a un generatore e si faceva festa fino al giorno dopo, forse due giorni, forse anche tre. Presi a raccontargli di alcune leggende metropolitane che avevo sentito a Bari, di alcune persone che conoscevo di vista e che sapevo finite male, davvero male, di altre che erano mie amiche e a un certo punto erano sparite dalla circolazione per paura di finire anche loro in quel modo. Lui mentre parlavo mi stava a sentire affascinato e io mi beavo di queste attenzioni e della luce del sole e del solletico del vento sulla nuca. Così la storia prese una piega inaspettata: invece di raccontare soltanto di me, pensai a come avrebbe agito al mio posto un’altra persona, una ragazzina di diciannove anni più scaltra, più temeraria, più cattiva, più nichilista e più vittima di me.
– Questa roba è forte, – disse il mio amico – perché non ci scrivi un romanzo?
Tornai a casa e buttai via tutto, fogli, foglietti, appunti, l’intero romanzo che stavo scrivendo. Gettai tutto il disordine che si era accumulato in quei mesi di buio, piatti sporchi, vestiti, tutto. Restarono solo i libri a farmi compagnia però li chiusi, smisi di consultare oracoli del passato, smisi di cercare di scrivere qualcosa che io stessa non comprendevo. Man mano mi rendevo conto che Stella, la mia protagonista, mi portava in luoghi che per qualche motivo mi facevano paura e che da narratrice avrei voluto fermarla, ma lei era più testarda di me, non voleva ascoltarmi, aveva  questo carattere, alla fine faceva sempre di testa sua. L’antagonista venne da sé, un personaggio così egocentrico non poteva che cadere nei tranelli di uno più egocentrico ancora. Marco mi chiamò a sé, non ci volle molto: pensai a tutti gli uomini che mi avevano fatto soffrire. Marco era l’anti-Stella, aveva tutto ciò che a lei mancava e gli mancava tutto ciò che lei possedeva, per questo erano profondamente simili: vigliacchi, drogati, invidiosi e spaventati dai sentimenti. Sarebbe stata una sfida all’ultimo sangue. Li sognavo, li disegnavo, li immaginavo al mio fianco. Per quattro mesi non ho smesso di scrivere un secondo, tranne per pisciare, mangiare e uscire ogni tanto. Enrico e Paolo mi lasciavano fare, dicevano che questa volta avevo imbeccato la strada giusta, erano curiosi di sapere se Stella ce l’avrebbe fatta o meno.
Ora vivo a casa del mio amico, lui non è come quelli che ho frequentato in passato. Siamo sul divano e ascoltiamo People are strange dei Doors. Io fumo una sigaretta e ogni tanto lo guardo e gli mordo il lobo per accertarmi che esista davvero e non sia un personaggio sbucato fuori da una mia storia. Si volta di scatto, gli occhi puntati addosso come se stesse vedendo nei miei occhi qualcosa di cui ancora non so nulla. Penso che sia incazzato per tutti questi morsi, invece lui ha altro per la testa.
– Andiamo a Villa Borghese domenica? – mi fa – Voglio che mi racconti una delle tue storie.
Lancio il mozzicone di sigaretta dalla finestra, mi alzo in piedi e mi tocco le labbra. In effetti mi andrebbe proprio di cominciare un altro romanzo.

© Ilaria Palomba

 

Ndr (7 aprile 2022): il testo riportato fa riferimento alla gestione della scuola nel 2012, mentre ora la Scuola Omero è gestita da Enrico Valenzi e da Agrin Amedì (v. https://www.omero.it/chi-siamo/)