di Claudio Castellani*

Ho sempre pensato che raccontare sia l’attività che ci consente di acquistare consapevolezza di noi stessi e del mondo in cui viviamo. Se smettessimo tutti, all’improvviso, di raccontarci i fatti della vita, i sogni, i pensieri, le fantasie, cesserebbe all’improvviso la storia dell’uomo.
Immaginare è ricordare, sognare, fantasticare. È proiettarci nello spazio, nel tempo passato o in quello futuro, modificare il presente secondo le nostre speranze più segrete. È riconsiderare e rivedere il mondo che viviamo, rivivere la vita che abbiamo vissuta alla ricerca di un senso, di un significato.
Scrivere in fondo non è niente altro che questo: imparare a usare sempre meglio strumenti che già possediamo per prestare maggiore attenzione alla vita. Per vederci un po’ più chiaro.
La scuola Rablè ha compiuto da poco i 7 anni di vita. È stata una delle mie esperienze più belle. Mi ha permesso di capire quanto poco è necessario perché nelle persone si metta in moto il meccanismo dell’immaginazione creativa e, con lei, il desiderio di conoscere.
Con questo non voglio dire che imparare a scrivere sia facile e divertente. Dal mio punto di vista, la difficoltà principale è sintetizzata da una frase di Goethe: “Ai miei amici, i giovani poeti, dirò allora: in fondo, adesso non disponete di alcuna norma, sta dunque a voi stessi darvela”.

La scrittura creativa si fonda infatti su un paradosso: si avvale di tecniche ma non è una tecnica che si può insegnare. Il metodo che seguo nel mio insegnamento si basa sul principio che a scrivere si impara scrivendo, che la teoria è importante, ma più importante ancora è misurarsi con le difficoltà poste concretamente dall’elaborazione di un testo.
La difficoltà, a questo punto, consiste nell’insegnare che s’impara solo sbagliando. Alcune persone si stupiscono del fatto che un racconto possa – e debba – essere scritto e riscritto e riscritto ancora fino a che non raggiunge la sua forma migliore.
Riflettendo su questa difficoltà, sono giunto alla conclusione che la scuola pubblica diffonde un’idea strana della scrittura: si arriva in classe, si scrive il tema, lo si rilegge, lo si corregge un po’ e poi lo si consegna. Se si prende un bel voto si è bravi, se si prende regolarmente un’insufficienza vuol dire che non si è tagliati per la scrittura. Allora cerco pazientemente di spiegare che nessuno scrive come a scuola. Né Manzoni – che è stato 40 anni sui Promessi sposi – né Italo Calvino, le cui riscritture erano maniacali.
Comunque. Nelle prime fasi del nostro lavoro, l’abilità e le competenze linguistiche non vengono mai poste in primo piano. I partecipanti ai corsi imparano fin da subito, invece, ad affrontare alcune competenze di base: pensare per immagini e imparare a descrivere compiutamente lo svolgersi di un’azione.
Tenendo sempre presente un principio: l’uomo ha un’importanza preminente rispetto alla tecnica. Più importante di tutto è imparare a osservare con attenzione il mondo in cui viviamo, diventare coscienti delle proprie percezioni e delle proprie emozioni.

 

*Claudio Castellani è nato a Caravaggio nel 1949. Ha studiato filosofia presso l’Università Statale di Milano. Giornalista professionista dal 1976, ha lavorato per i giornali dei maggiori gruppi editoriali italiani, come L’Espresso, Mondadori, Condè-Nast, Rizzoli, Nuova Eri-Edizioni Rai. Ha realizzato numerosi reportage in Italia e all’estero. E’ autore del romanzo Il marito muto, edito da Marco Tropea e del racconto Il Re di Photoshop, edito da Rablè IndieBook.it.