La scuola elementare di scrittura emiliana è una scuola di scrittura dove si insegna, in un certo senso, a scrivere male, cioè a non scrivere in modo scolastico e a non cercare per forza, come materia per la costruzione delle proprie frasi, un italiano alto.

Per spiegarci, un esempio della prima cosa che si insegna a non fare è dato dalla prima traduzione italiana del romanzo dell’americano Bret Easton Ellis American Psycho.

In questo romanzo di Ellis, nella prima pagina, compare tre volte la parola Bus, che significa, come sappiamo, Autobus.

Nella prima traduzione italiana di American Psycho il traduttore aveva tradotto il primo bus con Autobus, il secondo con Corriera, il terzo con Torpedone.

Allora, se questa cosa, usare dei sinonimi per evitare le ripetizioni, in un contesto scolastico ha forse senso, perché può servire all’insegnante a capire qual è il bagaglio lessicale dell’allievo, in un contesto letterario diventa ridicola. Nel caso specifico, ho raccontato di questa traduzione a un mio conoscente, il quale mi ha detto che se lui leggesse, in un romanzo, la parola Torpedone gli verrebbe da chiedersi «È successo qualcosa?». Non è successo niente, è lo stesso autobus di prima.

Un esempio della seconda cosa che si insegna a non fare viene dall’esperienza di traduttore di Daniele Benati.

Daniele Benati è di Reggio Emilia e è uno scrittore e un traduttore e ha tradotto Joyce, Flann O’Brian, Tony Kafferky, Ring Lardner e una volta gli è venuta voglia di tradurre un racconto di Beckett, solo che ci ha provato e non ci riusciva, perché la lingua di Beckett era infinitamente più veloce dell’italiano che riusciva a mettere in piedi lui.

Dopo qualche mese, gli è venuto in mente di tradurlo in dialetto reggiano, quel racconto, e l’ha tradotto e quella traduzione l’ha anche letta in pubblico e io ero lì a sentirla e era bellissimo, Beckett in dialetto reggiano, sembrava un testo scritto proprio in dialetto reggiano e l’inizio, di quel racconto, in inglese suonava così: I was feeling awful, e Daniele lì l’aveva tradotto così: A stèva mel, cioè: Stavo male.

Ecco, c’era un traduttore italiano, che aveva tradotto quel racconto lì in italiano prima del mio amico Daniele Benati, che quell’inizio lì, I was feeling awful, l’aveva tradotto così: Avevo una tarantola di inquietudini in petto.

Io quando ho sentito questa storia mi sono chiesto Chissà cosa avrà pensato, quel traduttore lì. Secondo me deve aver pensato: Beckett gli han dato il nobel, non può scrivere Stavo male. Stavo male siam capaci tutti di scriverlo. Beckett gli han dato anche il Nobel. Non può scrivere una cosa del genere. Ha preso anche il Nobel.

Be’, molto brevemente, secondo me uno che prende il Nobel, cioè uno bravo a scrivere, secondo me è bravo perché quando un personaggio sta male scrive, semplicemente, Stavo male, non ha bisogno di inventarsi delle metafore che sono anche belle, Avevo una tarantola di inquietudini in petto, in un tema in classe farebbero la gioia della professoressa d’italiano, ma dentro un racconto sono una specie di sfoggio non richiesto della propria perizia, una specie di esibizione, e se poi è un racconto tradotto, e se l’originale è I was feeling awful, è anche un discreto marone di traduzione, bisogna dire, come se ci fosse bisogno di elevare Beckett, di alzarlo al livello dei nostri temi d’italiano, che è meglio di no.

Quindi, riassumendo, alla scuola elementare di scrittura emiliana, si insegna prevalentemente a provare a misurarsi con una lingua concreta, con la lingua che sentiamo parlare tutti i giorni intorno a noi e che, per questioni legate alla storia della lingua italiana, difficilmente trovano ospitalità nei testi letterari. Conseguenza di questo approccio, se così si può dire, è che chi scrive si deve indirizzare per forza verso un italiano regionale, dal momento che l’italiano parlato correttamente (non scritto, parlato), non lo parla nessuno, lo insegnano solo nelle scuole di dizione, anche i fiorentini, parlano in un modo che non è il modo in cui si dovrebbe parlare, si pensi alla gorgia toscana, quel modo stranissimo che hanno di aspirare le c, che non è un modo italiano, è un modo toscano: l’italiano italiano, l’italiano doc, quello approvato dai glottologi, quello dove si dice giuoco e non gioco, quello dove pésca e pèsca sono due cose diverse, quello dove si dice perché, con la e chiusa, quello dove si seguono tutte le regole dettate non dall’uso, ma dalle grammatiche, cioè quello dove si parla così non perché è cosi che si parla, ma perché è così che si dovrebbe parlare, lo parleranno, in Italia, due o tremila persone, gli altri parlano in una lingua che risente del luogo in cui viene parlata, dei dialetti, dei sostrati particolari di quel posto lì, e che differisce, spesso, dalla lingua che si parla nel paese a cinque chilometri di distanza, ma che resta, nella maggior parte dei casi, una lingua comprensibile a tutti e carica di un’espressività che con l’italiano italiano è molto difficile ottenere. Per quello allora la scuola si chiama emiliana, non perché si debba scrivere in emiliano (ci sono state anche scuole di scrittura emiliana all’estero, in Sardegna, per esempio), ma per sottolineare il fatto che a chi partecipa a questa scuola sarà chiesto di lavorare su una lingua concreta, regionale, anche grossolana, una lingua dove i personaggi difficilmente dicono Cribbio o Poffarbacco, e più facilmente dicono Per la Madosca, o Zio campanaro, o una qualsiasi delle infinite esclamazioni che vengon dal cuore che si sentono o si sentivano in giro fino a pochi anni fa.