Così non posso andare avanti, mi dissi un giorno di sei anni fa. Allora, e anche adesso ma molto meno, per lavoro scrivevo di economia e di finanza. Raccontavo come avevano chiuso l’indice Mibtel a Milano, il Nikkei a Tokyo e il Nasdaq a New York, quale era stato l’utile netto del terzo trimestre di una compagnia assicurativa e a che livello viaggiava lo spread tra Btp e Bund.

Quel giorno, decisi che dovevo provare a scrivere di altro, altrimenti mi sarei spenta.

«Non ho alcuna fantasia, non so inventare storie né costruire intrecci, non riesco a immaginare personaggi che non siano persone, non sono capace di uscire da me. E poi, ora che ci penso, ho parecchia paura di disturbare», conclusi.

Su quei ‘non’ e sul terrore di infastidire il prossimo, sorse tutto quello che venne dopo e che, in qualche anno, ha ribaltato la mia vita professionale e non solo.

Aprii un blog perché era la cosa più semplice da fare, perché è uno strumento democratico, discreto e non intrusivo, perché era solo mio e non mi dava ansie, perché lì potevo sperimentare ogni strada e restare, finché lo avessi desiderato, anonima, perché mi mettevo in gioco ma senza esagerare.

Ci infilai dentro l’unico mondo che fossi in grado di raccontare: il mio.

E cominciai a scrivere ogni sera, con maniacale regolarità, di me e della mia vita, illudendomi che sarebbe stata un’attività innocua e senza conseguenze.

Mi sbagliavo.

Scrivere di sé è una pratica rischiosa e piena di insidie.

Perché, salvo rari casi, estremi e pirotecnici, la quotidianità di tutti noi, nelle sue ricorrenti miserie e nei suoi momentanei guizzi, è mortalmente noiosa, quasi quanto una partita di biliardo in televisione. E trasformare la routine in intrigo, la ripetitività dei gesti in rivoluzione, la monotonia in ritmo, è un lavoro che richiede impegno, puntiglio e ostinazione.

Perché non sempre le persone che popolano la tua esistenza reale gradiscono presenziare a quella virtuale. E, spesso, ciò che a te che scrivi sembra bonaria ironia, a chi legge e ci si ritrova dentro, appare come esposizione a pubblico ludibrio, insulto, imperdonabile offesa. Per improntitudine e per il delirio di onnipotenza che ogni tanto coglie chi improvvisamente si scopre letto, ho ricevuto, nel primo anno di vita del mio blog, minacce di querela dai vicini di casa, occhiate ostili dalle maestre dei miei figli, paternali dalle amiche e rancorose reprimende dai congiunti. Nell’entusiasmo ottuso della neofita, ci ho messo un po’ a capire che la suscettibilità altrui viene prima dell’arguzia di un post.

Scrivere di sé è rischioso perché, se ti va bene, un giorno ti trovi ad avere un blog, cosiddetto personale, da cui sono transitati 14 milioni di lettori, da cui sono gemmati due libri e una rubrica su un settimanale, e a quel punto la panettiera ti confonde con il tuo personaggio e una sconosciuta ti ferma per la strada e abbraccia lui stringendo te. E mantenere distinti il piano reale e quello virtuale è un ardito equilibrismo dagli esiti incerti.

Perché tu hai scelto un alter ego pubblico e lo hai dato in pasto alla rete, ma i tuoi figli, che della tua vita e della tua storia sono le colonne, non hanno scelto nulla e bisogna proteggerli.

Scrivere di sé è insidioso perché chi ti legge si aspetta verità e tu spesso, per tutti i motivi di cui ho detto qui sopra, devi usare un filtro che trasfigura il vero in verosimile con risultati non sempre efficaci o convincenti.

Tuttavia, nonostante rischi e insidie, scrivere di sé è una pratica virtuosa, terapeutica e utile.

Perché essere costretti, dalla propria maniacalità, dal proprio super io o dalla propria grafomania, a trovare ogni giorno, nel pantano della vita, qualcosa che meriti di essere raccontato, mette in una luce nuova il tuo regno grigio.

Perché condividere se stessi induce condivisioni altrui e crea una comunità di simili che si mettono in gioco e questo continua a sembrarmi una magia, anche dopo tanto tempo.

Perché, raccontando di sé, si racconta e si definisce la propria visione del mondo, che è il motore di pensieri e azioni, il senso del nostro vivere. Poterla spartire con altri è una grande responsabilità ma anche un grande privilegio.

Perché, alla ricerca di angoli colorati nella pianura della propria esistenza, si recuperano l’incanto, la curiosità e lo stupore che sono talenti preziosi che spesso perdiamo per strada.