pasini

Non sono un autore prolifico, anzi. Non sono un autore che scrive da quando era bambino. Ho iniziato tardi, dopo i trenta, perché solo allora ho trovato la costanza per fare quello che per me è un lavoro a turni. Ogni giorno la sveglia suona alle cinque, e fino alle sette mi metto l’elmetto da operaio letterario, poi colazione e, appena chiusa la porta di casa, faticosamente esco dai mondi in cui si muovono i personaggi e tento, io, di muovermi nella realtà (con alterne fortune).

All’attivo ho due romanzi: una storia d’Appennino e resistenza (Venti corpi nella neve) e una storia di colline di Prosecco e diversità (Io sono lo straniero). Più un racconto per l’antologia benefica Alzando da terra il sole, il cui ricavato sarà devoluto alla ricostruzione della biblioteca di Mirandola, uno dei centri più colpiti dal sisma del 2012. Tutte queste storie sono nate dalla natura.

L’Appennino è la terra della mia infanzia, là dove ho le radici. Il castagno è l’albero dominante, il grano per la gente d’Appennino che faceva essiccare le castagne poi le macinava per trarre una farina pesante, grassa, con cui produrre polenta, dolci, gli ormai introvabili ciacci… Il castagno è un albero imponente, bellissimo, che segue i cicli delle nostre vite, impassibile perché molto più saggio di noi. Il castagno è per me infanzia e rifugio. Infanzia perché ci sono cresciuto accanto, sotto poi anche sopra, a raccogliere i ricci (gli “scarz’” nel dialetto dei nonni) cercando di non pungersi mentre si prelevano i pregiati “maròn”, dolcissimi se si riesce ad eliminare “la sensa”; rifugio perché è tra i boschi di Zocca che mi sento al sicuro, dove ho pianto mio padre, dove ormai vado di rado. Boschi che, a scanso di equivoci, la gente chiama “castagnè”.

Veniamo al secondo romanzo, al mio presente. La pianta dominante sulle colline del Prosecco ha già la vita nel proprio nome: vitis vinifera… vite, insomma. Un mare di viti, che scendono ripide dalle colline e sembrano, per uno strano gioco di prospettive, arrivare fino alla Laguna di Venezia che, però, è un altro mondo. Sono le fasi dell’anno della vite che scandiscono la storia di Io sono lo straniero: dormienza, taglio, pianto (la vite piange, certo! Quando ritorna a vivere, paradossalmente), invaiatura, allegagione, maturazione… è per me curioso e straordinario il legame tra l’uomo e la pianta. Lo osservo rapito, cercando di capire se potrebbero esistere l’uno senza l’altra. Credo di no.

Due parole sul clima che accompagna le vicende. Un inverno senza neve, in Appennino, è un inverno insolito e strano. Un inverno che sembra sospeso in attesa che accada qualcosa. Qualcosa che poi, finalmente, liberi una nevicata catartica, definitiva. Treviso, invece, è città d’acqua perché solcata da canali, e d’acqua perché piove spesso. Anche nelle vicine colline in cui si produce vino, l’acqua la fa da padrona. Quando spunta il sole, ci si stropiccia gli occhi. Un dono inatteso e raro, che spesso naufraga o annega dopo poco. E nel racconto per Alzando la terra il sole? Lì, la natura aveva già fatto tutto. Il sisma aveva crepato le case e ferito i terreni. Abbattuto gli edifici e cercato di abbattere le persone. Nel mio racconto si parla di una natura selvaggia, crudele. Quella della ritirata di Russia dell’inverno 1943. Perché tutti noi emiliani, di fronte alla Bassa sfigurata, non abbiamo potuto fare a meno di pensare a quanto la natura può essere cattiva.

Non abbiamo parlato delle persone, degli esseri umani che si muovono in questi scenari. Non ce n’è bisogno, sono una conseguenza della natura in cui sono cresciuti, quasi una gemmazione. È facile indovinarli, quindi. Purtroppo questo accade solo nei romanzi, perché nella realtà è l’uomo a considerare la natura come una sua derivazione, quasi una creatura in cui operare a piacimento. Senza tenere conto delle conseguenze. Allora, una volta di più, godiamoci i libri.

 

© Giuliano Pasini