nemoFra i tanti libri che ho tradotto dallo svedese, ve n’è uno in particolare del quale sono semplicemente innamorata. È La biblioteca del Capitano Nemo, l’opera fondamentale di P.O. Enquist, uno dei veri giganti della letteratura svedese contemporanea. Si tratta di un libro sotto ogni aspetto difficile, e difficilissimo è stato per me portarlo in Italia, ma dopo molta insistenza, nel 2004, a tredici anni dall’uscita in Svezia, compariva finalmente in traduzione, per i tipi di Giano Editore. Il testo, pur nella sua assoluta sobrietà, offre una concentrazione di termini desueti, espressioni idiomatiche e forme dialettali che ha pochi eguali. Armata di buona volontà e dei tanti strumenti a disposizione – dalla mia sterminata collezione di dizionari svedesi a Internet – al momento della traduzione ero tuttavia riuscita a risolvere in maniera soddisfacente anche i problemi più ostici.

Ma una frase rimaneva avvolta da un grande punto interrogativo. Vi si descriveva una semplice latrina (il romanzo è ambientato intorno agli anni Quaranta del secolo scorso, in un villaggio del Nord della Svezia tanto remoto quanto arretrato), dalla quale, lasciando aperta la porta, si godeva di un bel panorama – probabilmente l’unico diversivo offerto dai luoghi e permesso da una comunità austera e repressiva. In relazione dunque a questo piccolo ambiente si menzionavano come di sfuggita dei misteriosi «skithusstickor». Le parole composte sono già di per sé un nodo che il traduttore italiano si trova quasi sempre a sciogliere diluendo un unico termine, spesso molto efficace e creativo, in una sorta di descrizione più o meno lunga – un passaggio che da una lingua prevalentemente sintetica come lo svedese a una lingua tipicamente analitica come l’italiano è purtroppo obbligato. Ma di questo termine particolare, composto di tre radici ognuna di per sé affatto chiara e comprensibile, mi sfuggiva comunque il senso globale e ultimo. Letteralmente, si trattava di «pezzetti/frammenti di legno per la latrina» – che cosa potevano mai essere? Formulate molte ipotesi che non mi convincevano e non volendo rischiare pericolosi fraintendimenti, decisi di percorrere la strada più sicura: interpellai l’Autore. Il quale, con la consueta disponibilità e gentilezza degli scandinavi, mi spiegò che dalle sue parti, quand’era bambino, le famiglie più abbienti, o almeno le più alfabetizzate, tenevano alla latrina i vecchi giornali, mentre la gente comune usava delle sottili fette di legno. Nella mia traduzione resi dunque «skithusstickor» con una lunga perifrasi: «i sottilissimi fogli di legno in uso da quelle parti a mo’ di carta igienica». Quando, tempo dopo, citai questo esempio a un seminario della Fiera del Libro di Göteborg dove dialogavo con Enquist sulle difficoltà del trasporre il suo Capitano Nemo in italiano, il pubblico rimase divertito e deliziato.

Nella nostra bella lingua, anche gli aspri «skithusstickor» erano diventati una dolce cantilena che magicamente riusciva quasi a trasformarli in soffici fogli a quattro veli.

© Carmen Giorgetti Cima