La leggenda degli annegati - JensenContrariamente a quanto pensano molti profani, ovvero che il traduttore sia un esperto onnisciente della lingua di partenza (posto che i profani siano consapevoli dell’esistenza del traduttore e della lingua di partenza), spesso il suo compito più faticoso – ma anche il più divertente – è apprendere nuovi termini. Salvo poi, naturalmente, dimenticarli: se potessi ricordare tutto ciò che ho imparato traducendo, sarei un esperto di Seneca e di vini francesi, di giurisprudenza danese e parassiti africani, di sintomi di avvelenamento da radiazioni, geologia, droga, armi da fuoco e caccia alla foca. Invece no. Invece fatico più di altri persino a tenere a mente i concetti della vita quotidiana, nella quale peraltro le tecniche di caccia alla foca non avrebbero nemmeno un loro perché.

Capita dunque di ricorrere alle fonti più disparate – ormai soprattutto la rete – per trovare strumenti e soluzioni, e capita sempre più spesso che i termini problematici siano sparsi a manciate dall’autore sulla pagina per dare credibilità alla narrazione o solo per stupire con effetti speciali. Ma vi sono libri in cui la ricerca delle parole diventa piuttosto una necessità di capire il mondo che c’è dietro, di ricostruire il senso dell’universo creato dallo scrittore. Qualche anno fa mi occupai di un romanzo in cui la terminologia marinara è fondamentale per l’ambientazione: La leggenda degli annegati di Carsten Jensen. Un bel libro, una saga con molti personaggi, amore e morte, un secolo di vita marinara, dal 1848 al 1945, che segue il passaggio dalla navigazione a vela a quella a motore. È un libro ambientato in buona parte a Marstal, minuscolo centro su un’isola ai margini della Danimarca, che però un tempo deteneva la più grande flotta mercantile danese dopo quella di Copenaghen.

Navigavano, gli abitanti di Marstal, prima per contrabbando, poi per trasportare merci da un angolo all’altro del globo. E navigavano per tradizione con varie tipologie di quella che in danese si chiama skonnert, in italiano “goletta”. È stato aggirandomi nelle sale del museo locale, contando pazientemente alberi e vele, che ho imparato di più sulle imbarcazioni che sono così importanti nel romanzo. Ho imparato che la goletta, armata nella sua forma più comune con due alberi a vele auriche, era stata scelta perché poteva girare il mondo con solo quattro uomini di equipaggio, rappresentando dunque – a pari capacità di carico – un’imbarcazione “povera” rispetto per esempio al brigantino che, con due alberi anch’esso, ma a vele quadre, richiedeva un equipaggio doppio: otto bocche da sfamare per mesi. Ma ho imparato che esistono la goletta a due, a tre, persino a quattro alberi, e poi la goletta a palo, il brigantino goletta, la goletta a gabbiola, quest’ultima “simile alla goletta, ma con l’aggiunta di vele quadre di gabbia all’albero di trinchetto”, come è definita in uno dei manuali consultati al mio ritorno. Quelle vele quadre erano un lusso perché richiedevano un uomo in più, ma permettevano un rendimento migliore nelle andature di poppa, in un’epoca in cui lo spinnaker non esisteva – ma esisteva la vela a sacco, ho imparato anche questo – e non esisteva nemmeno la Coppa America. Un’epoca in cui si navigava solo per vivere. E chissà che Torben Grael, quel brasiliano dal nome così danese, non abbia sangue di Marstal nelle vene… ma questa è solo una congettura.

Ho imparato però – una volta di più – che il vocabolario di un popolo dipende dalla specializzazione: a contar vele e pennoni sui manuali italiani ho scoperto che alla definizione di “goletta a gabbiola” corrispondevano non una, ma due imbarcazioni danesi presenti nel romanzo, la topsejlsskonnert e la bramsejlsskonnert. E allora? Allora via di nuovo sui testi danesi e sui miei appunti per verificare la differenza tra due imbarcazioni che in italiano sono una e che si distinguono per un unico particolare, una piccola vela quadra in cima all’albero di trinchetto: una o due vele di gabbia per la prima, tre per la seconda. Un tratto insignificante per la marineria italiana, distintivo per i danesi, come del resto per i tedeschi.

Accidenti, che fare? Il termine manca, ma la distinzione va conservata: per il traduttore la strada più breve è di rado la migliore. Conta e riconta, sfoglia e naviga (si fa per dire, nel mio caso), il problema è solo quello: è il numero delle vele a definire la terminologia. Che numero sia, allora, visto che l’italiano usa – ma indifferentemente – il numero singolare e plurale, ovvero prevede che la goletta “a gabbiola” possa essere anche definita “a gabbiole”. E allora la topsejlsskonnert, con una vela di gabbia (o anche due, ma nessuno è perfetto) sarà singolare, la bramsejlsskonnert, che ne ha tre, sarà plurale. Così fu.

Soluzione banale, tecnicamente inesatta e sicuramente impercettibile. Il lettore italiano del resto, anche quello esperto, non ha l’esigenza di percepire la diversità – la distinzione non esiste nel suo vocabolario – e sicuramente non ha percepito i miei sforzi, perciò forse potevo anche cavarmela più a buon mercato. Ma non sarei stato soddisfatto e invece ora ho la coscienza a posto, credo: quella vela di differenza c’è anche in italiano… almeno per me.

©Bruno Berni