I problemi da affrontare quanto si traduce la poesia ebraica sono molti e di varia natura. Alcuni di essi, come la difficoltà di rendere la millenaria stratificazione linguistica e il dialogo costante della maggior parte degli autori con i testi sacri, sono assolutamente specifici dell’ambito ebraico; altri, invece, rientrano nell’insieme generale delle complicazioni poste dalla traduzione della poesia. Una di queste difficoltà è rappresentata indubbiamente dal gioco di parole.

Il gioco di parole è una pratica implicita nello stesso discorso poetico, un istinto naturale per chiunque scelga di comporre in versi. In fondo, come ha scritto il critico israeliano Shimon Sandbank, “la parola è il giocattolo più congeniale per il poeta”, pertanto la sua occorrenza non deve suscitare stupore. Tuttavia, per il traduttore i giochi di parole possono costituire un problema notevole. Essi, infatti, sono spesso meri “incidenti linguistici”, basati su una somiglianza a livello fonologico tra due o più parole di fatto dovuta al caso e non sempre riproducibile in maniera equivalente, soprattutto se le lingue coinvolte sono molto diverse tra loro, come l’italiano e l’ebraico.

L’ebraico si presta notevolmente al gioco di parole. La struttura della lingua, fondata sulla radice trilittera consonantica e su schemi morfologici fissi, facilita non poco questa pratica, soprattutto tramite la metatesi e la sostituzione, fornendo agli autori un campionario di possibilità molto ampio, come dimostra già la letteratura biblica. La situazione è destinata a complicarsi ulteriormente quando al gioco di parole il poeta combina l’allusività peculiare dell’ebraico.

Uno dei poeti israeliani che più predilige il gioco di parole è Hezy Leskly, del quale spero, alla fine, di pubblicare un’antologia in italiano (per ora ho tradotto qualche decina di liriche, in parte uscite sul mensile Poesia). Leskly possiede una capacità di “lavorare” l’ebraico quasi sconcertante. È una peculiarità strettamente legata alla profonda ricerca linguistica che domina i suoi versi, la quale spesso si traduce in parodie sintattiche e lessicali, in cui il gioco di parole riveste un ruolo particolarmente importante. Ciò si realizza soprattutto nella raccolta גולדברג ולאה העכברים, “I topi e Lea Goldberg”, uscita nel 1992, due anni prima della morte prematura del poeta. Il bizzarro titolo del volume è in realtà una dichiarazione di poetica e allude al progetto di Leskly di rosicchiare, proprio come un topolino, le fondamenta della grande tradizione lirica ebraica, rappresentata dalla poetessa Lea Goldberg. All’interno del ciclo הנוספות השעות, “Le ore supplementari”, si colloca la poesia intitolata עובש המעלה העוגב שעת (“L’ora del flauto/organo? che fa la muffa”). Il breve testo si fonda su un gioco di parole tra i sostantivi עוגב (‘ugav, oggi “organo”, strumento musicale biblico di origine oscura, secondo alcuni identificabile col flauto di Pan o con la zampogna, per altri con uno strumento a corde) e עוגה (‘ugah, “torta”), in cui si osserva la sostituzione tra le consonanti ב e ה, presentata dall’io poetico come un errore di battitura probabilmente dovuto alla vicinanza tra le lettere sulla tastiera ebraica. L’errore, che nasce come casuale, ha il preciso intento di creare un effetto straniante, vanificando la naturale coerenza tra titolo e contenuto. In questo modo il testo mina le basi stesse della poesia, la quale diviene un insieme vacillante di versi. Questa è la traduzione letterale della poesia:

 

L’ora del flauto/organo(?) che fa la muffa 

La torta alle carrube che ho cotto nel forno

senza alcun talento

fa la muffa

in frigorifero.

Non la getterò via,

sebbene non vi sia nulla di più facile.

Il rettangolo marrone, repellente, spalanca

i miei occhi ogni mattina.

Ne resto lievemente disgustato

e vado

per la mia strada.

 

(Nel titolo della poesia ho scritto per errore “flauto/organo”(?)

invece di “torta”. Non lo cambierò. L’errore rimarrà)

 

Il primo passo per tradurre la poesia è stato quello di analizzare il sostantivo più difficile, עוגב, e la sua funzione all’interno del testo. Nella Bibbia la parola compare per la prima volta in Genesi 4:21, dove si cita il personaggio di Yuval, riguardo al quale è scritto הוּא הָיָה אֲבִי כָּל-תֹּפֵשׂ כִּנּוֹר וְעוּגָב, ossia che “era il padre di quelli tutti che suonano la cetra e lo strumento detto ‘ugav”. Questo verso biblico ha un’importanza notevole, giacché narra, di fatto, la nascita della musica e, conseguentemente, della poesia. Il legame tra musica e poesia nella tradizione ebraica è, infatti, molto stretto. I testi poetici erano scritti per essere cantati con accompagnamento musicale e da un punto di vista lessicale non esiste distinzione tra canto e testo poetico, entrambi chiamati שיר (“shir”). Nel corso dei secoli, nell’ambito della letteratura ebraica, la parola עוגב è stata spesso utilizzata come simbolo della poesia lirica più alta, forse per la sua presenza all’interno di un verso biblico così rilevante e per il significato incerto che le conferiva un alone di mistero. Senza dubbio l’idea di Leskly parte proprio da qui. Nel testo עוגב non rappresenta un organo, o un altro strumento musicale in sé, ma la poesia stessa. Per ricreare il gioco di Leskly era necessario, quindi, trovare un sostantivo italiano che evocasse la poesia e al tempo stesso si adattasse alla manipolazione originale, consentendomi di riprodurre un errore di battitura semplice e credibile, basato sullo scarto di una sola lettera. Dopo aver escluso a malincuore le soluzioni più immediate (“cetra” e “lira”), mi sono messa a esaminare le traduzioni della parola עוגב e ho notato che talvolta è stata resa con “arpa”. Ad esempio, il titolo dell’opera poetica dell’autrice ebrea triestina Rachel Morpurgo, רחל עוגב, è di solito tradotto in inglese con Rachel’s Harp, ossia “L’arpa di Rachel”. Poiché l’associazione tra arpa e poesia è piuttosto comune anche in ambito italiano (“arpa d’or dei fatidici vati!”), la mia decisione è, infine, caduta su questo sostantivo, il quale mi è parso adatto a rendere l’immagine principale del testo. Purtroppo non ho potuto mantenere la “torta” dell’originale e l’ho sostituita con un’immagine culinaria alternativa, la “rapa”. Ovviamente è stato necessario rimaneggiare la seconda parte della poesia per adeguarla alla nuova immagine ma, nonostante le modifiche, il risultato mi pare conservi l’intuizione originale alla base del testo e dell’intera opera di Leskly: oggi più che mai la poesia deve abbandonare gli alti cieli e convivere con la “muffa”.

 

L’ora dell’arpa che fa la muffa 

La rapa rossa che ho cotto nel forno

senza alcun talento

fa la muffa

in frigorifero.

Non la getterò via,

sebbene non vi sia nulla di più facile.

Il tondo bruno, repellente, spalanca

i miei occhi ogni mattina.

Ne resto lievemente disgustato

e vado

per la mia strada.

 

(Nel titolo della poesia ho scritto per errore “arpa”

invece di “rapa”. Non lo cambierò. L’errore rimarrà)

 

 

© Sara Ferrari