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Il vasto mondo della marginalità, non di rado in contatto con i cosiddetti “ambienti alternativi”, si muove con regole e irregolarità interessanti anche linguisticamente parlando. In Francia questo è più che mai vero: tutti sanno come il popolo francese sia refrattario a qualsiasi forma di colonizzazione linguistica. Verrebbe da dire: come potrebbe essere altrimenti in un Paese che possiede dal 1958 un’Associazione di difesa della lingua francese! In realtà, in questo stesso Paese esiste un linguaggio gergale a diffusione nazionale – che sbrigativamente definiremo argotico-popolare – non solo storicamente gallonato e culturalmente celebrato, ma soprattutto soggetto alle più estreme manipolazioni della lingua. Alla faccia della difesa della suddetta…

Da qui vedo la luna

Contraddizioni, coabitazioni, evoluzioni del tutto nella norma all’interno della storia di molte lingue. Caratterizzazioni che si trasformano, per un traduttore, in deliziose immersioni nel mare dei registri linguistici. Traducendo la storia semi-autobiografica di una homeless che vive per le strade di una grande città francese e diventa via via una scrittrice, mi sono ritrovata una volta ancora a immergermi nel pescosissimo mare del linguaggio argotico-popolare francese. Le vicende di Moon, barbona (pardon, clochard…) protagonista non ancora ventenne di Da qui vedo la Luna di Maud Lethielleux, mi hanno portato a scoprire come il termine zonard, in origine abitante della zone, spazio urbano povero e dissestato coincidente perlopiù con le diseredate banlieues parigine, indichi ormai anche una più generica figura di vagabondo.

Je veux dire, Slam, il a la gueule d’aucun emploi, il a juste une gueule de taulard, et c’est super triste un taulard à huit heures du mat’ assis à côté d’une zonarde qu’a ses règles et qui pue le sang séché.

 

E così, alla ricerca di un traducente in linea con il registro argotico-popolar-giovanilese, l’età dei personaggi che lo utilizzano e il contesto sociale in cui questi si muovono, mi sono ritrovata per la testa il termine randa. In fondo, in italiano come in francese, “tagliare” una parola è un procedimento consolidato. E nei gerghi criptici italiani – per essere più precisi nel gergo della malavita di ambito lombardo – la forma apocopata di randagio, inteso come persona senza fissa dimora, è da tempo attestata. Non si inventa mai niente di nuovo…

Voglio dire, Slam, la faccia per un qualunque mestiere proprio non ce l’ha, ha solo una faccia da galera, ed è triste da paura uno con quel muso lì, alle otto del mattino, seduto vicino a una randa mestruata che puzza di sangue secco.

 

Allo stesso modo, niente di nuovo hanno inventato i giovanissimi punk francesi quando per designare una persona appartenente al movimento giovanile nato verso la metà degli anni Settanta hanno fatto ricorso al verlan, antico procedimento di costruzione lessicale dell’argot che consiste nel mettere le parole à l’envers. Nasce così quel kepon utilizzato a iosa nel romanzo e che altro non è se non l’inversione sillabica di punk, così come l’ormai consolidato teuf è l’equivalente di fête.

Un kepon se prend la tête avec le chauffeur pour un titre de transport déjà poinçonné, le kepon dit que c’est pas vrai, il vient de l’acheter au distributeur, le chauffeur répond que le distributeur ne fonctionne pas, le kepon balance le ticket et va s’asseoir par terre au milieu du bus avec ses potes. Ces kepons-là, c’est des oiseaux migrateurs, ça se voit, leurs crêtes tiennent avec du gel et pas avec du savon, et dans leurs trous c’est pas des vraies épingles à nourrice, c’est des imitations brillantes.

 

La lingua italiana dispone di termini ormai accreditati nel gergo giovanile e creati con la semplice aggiunta di suffissi: punkettaro (Tondelli ce lo insegnò negli anni Ottanta), punkettuso (secondo alcuni, i frequentatori dei centri sociali) o punkettone (considerato sinonimo colloquiale sia di punk sia di giovane che ascolta la musica punk). L’uso e la diffusione di questi tre termini nella penisola non sono né uniformi né condivisi: c’è chi li percepisce desueti o artificiosi o inappropriati, oppure come vezzeggiativi o spregiativi. Ritengo si tratti, come per moltissime altre parole gergali italiane, di un’annosa e stratificata problematica linguistica: in primis quella posta dalla lingua italiana (di dialetti e substrati composta), poi quella relativa alla cifra caratteristica di questo lessico gergale legato all’oralità e, last but not least, quella attinente alla famigerata “sensibilità linguistica”.

Un punkettone sta dando fuori con il conducente per un biglietto già timbrato, il punkettone dice che non è vero, che l’ha appena preso al distributore, il conducente risponde che il distributore non funziona, il punkettone sbatte via il biglietto e va a sedersi per terra in mezzo all’autobus con i suoi amici. Quei punkettoni lì sono degli uccelli migratori, si vede, le loro creste stanno su col gel e non col sapone e nei buchi non c’hanno delle vere spille da balia, sono ottime imitazioni.

 

Una nota curiosa: tentando di capire come traducono il termine punkabbestia oltralpe, mi sono imbattuta in risposte di autorevolissime traduttrici francesi rivelatrici (forse) della realtà virtuale che presiede all’Associazione sopramenzionata: “I punkabbestia? In Francia non esistono!”

Tranquilli: i punks à chien esistono. Eccome.

©Luciana Cisbani