Nonostante il giudizio limitativo di Leopardi, che lo definì poeta "dell’orecchio e dell’immaginazione, del cuore in nessun modo", Vincenzo Monti occupa una posizione nevralgica nel quadro della poesia italiana dell’Ottocento. Tutti riconoscono in lui l’autore che riassunse e riorganizzò lingua, temi e forme della poesia settecentesca a uso delle generazioni future. Si è soliti distinguere la produzione poetica di Monti in tre momenti, quello romano filo-papale, dalla Prosopopea di Pericle alla Bassvilliana (1779-1797), quello filo-francese, dal Prometeo a Le api panacridi (1797-1814), quello filo-austriaco, dal 1815 fino alla morte. Questa scansione, che sottolinea il mutare dell’atteggiamento politico del Monti, introduce dei parametri di valutazione impropri per un poeta che ricomponeva le contraddizioni del presente nell’universo della mitologia e di una tradizione secolare. Monti combina elementi danteschi con elementi biblici e virgiliani, riprende la grande tradizione classicista italiana rinascimentale intrecciandola con autori come Shakespeare e Ossian. Sono debitori del Monti tutti i più grandi poeti italiani della prima metà dell’Ottocento, da Foscolo, a Manzoni a Leopardi.

Testo di riferimento: V. Monti, Opere, a cura di M. Valgimigli e C. Muscetta, Milano-Napoli, Ricciardi, 1953; V. Monti, Poesie, a cura di G. Bezzola, Torino, UTET, 1969.