I modi di dire di Dante che usiamo ancora oggi
a cura di Vera Gheno

È iniziato il 2021: siamo entrati nell’anno di Dante, che commemora i settecento anni dalla sua scomparsa. I festeggiamenti e le iniziative dantesche, che proseguiranno per tutto il 2021, avranno il loro culmine il 25 marzo con il Dantedì, giorno interamente dedicato al Sommo. Questa data è stata scelta ipotizzandola come giorno di inizio del viaggio simbolico di Dante nella Divina Commedia, anche se non tutti gli studiosi sono concordi su questo dato.
Per tutto l’anno, l’Accademia della Crusca proporrà una “parola di Dante” presa dalla Divina Commedia: la trovate sul loro sito e sui loro social corredata da un particolare hashtag: #ParolaDiDanteFrescaDiGiornata. Il nostro profilo Twitter, invece, proporrà di tanto in tanto termini usati dal Sommo nella Commedia che oggi sono caduti in disuso – e che il dizionario, di conseguenza, indica con una crocetta – invitando così alla loro riscoperta: #DanteDesueto.
Per iniziare bene l’anno dantesco, dunque, offro anche io il mio piccolo contributo alla causa con un glossario che analizza alcune tra le espressioni e i modi di dire tratti dalla Commedia e che usiamo ancora oggi, molto spesso – ma non sempre – senza nemmeno avere consapevolezza di stare citando il padre della lingua italiana.
Bella persona: «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende / prese costui de la bella persona che mi fu tolta; / e ‘l modo ancor m’offende»: nei versi 100-102 del V canto dell’Inferno, Francesca da Rimini sta parlando del modo in cui Paolo Malatesta si era innamorato (velocemente, essendo quello di lui un cuore gentile) della “bella persona” di lei, poi brutalmente e prematuramente uccisa. “Bella persona” si usa oggi soprattutto in riferimento a caratteristiche interiori, più che esteriori.
Cosa fatta capo ha: ciò che è fatto è fatto e non si può cambiare, ma è anche meglio di una cosa senza conclusione che si trascina. Il proverbio deriva dall’inversione di una parte del verso 107 del canto XXVIII dell’Inferno: «Capo ha cosa fatta». La frase è pronunciata da Mosca dei Lamberti, che, in base alle leggende in circolazione ai tempi di Dante aveva, con le sue azioni, dato inizio alla faida tra Guelfi e Ghibellini.
Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza: siamo nel canto XXVI dell’Inferno, versi 119-120. La frase è detta da Ulisse come esortazione ai suoi compagni per seguirlo oltre le colonne d’Ercole, e il significato è che noi esseri umani siamo stati creati per vivere in una maniera degna, appunto, della nostra evoluzione.
Galeotto fu: «la bocca mi basciò tutto tremante. / Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: / quel giorno più non vi leggemmo avante». Siamo nel V canto dell’Inferno, versi 136-138; Francesca sta raccontando a Dante della passione bruciante vissuta con Paolo. In particolare, Francesca spiega che i due si erano baciati per la prima volta durante la lettura di un romanzo cavalleresco in cui Ginevra, sposa di Artù, viene baciata da Lancillotto: la passione descritta nel brano, insomma, li spinse a baciarsi. Quindi il libro fece da Galeotto tra loro, come Galeotto (Galehaut), siniscalco della regina Ginevra, aveva fatto da tramite tra la regina e il suo amato nei romanzi del ciclo bretone. Quindi, originariamente, galeotto era un nome proprio. Solo successivamente è diventato un nome comune, seguendo il processo di antonomasia.
Il Bel Paese: è una espressione poetica per definire l’Italia (bella per il clima, per la cultura, per il paesaggio), usata da Dante nel canto XXXIII dell’Inferno, al verso 80: «del bel paese là dove ‘l sì suona». La stessa espressione ricorre anche in Petrarca, in particolare nel Canzoniere, CXLVI, vv. 13-14: «il bel paese / ch’Appennin parte e ‘l mar circonda e l’Alpe». Ancora oggi, ci si riferisce spesso all’Italia con questa espressione.
Il bello stilo: «Tu se’ solo colui da cu’ io tolsi / lo bello stilo che m’ha fatto onore», scrive il Sommo nei versi 86-87 del I canto dell’Inferno rivolgendosi a Virgilio, che gli ha insegnato a scrivere bene, con stile bello. Stilo, quindi, è una forma arcaica per stile.
Il ben dell’intelletto: «Noi siam venuti al loco ov’io t’ho detto / che tu vedrai le genti dolorose / c’hanno perduto il ben dell’intelletto». Canto III dell’Inferno, versi 18-20: Virgilio presenta a Dante le persone che risiedono nell’antinferno che hanno, appunto, perduto il ben dell’intelletto; che non è l’intelligenza in sé, quanto piuttosto l’insieme dei benefici che si possono avere dall’intelligenza, se usata bene. Stiamo, quindi, parlando degli ignavi (cfr. oltre, a Senza infamia e senza lode), che in qualche modo hanno vissuto solo a metà, senza godere pienamente dei vantaggi dati loro dall’intelletto umano.
Il gran rifiuto: «Vidi e conobbi l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto», scrive Dante ai versi 59-60 del III Canto dell’Inferno (dal quale sono stati tratti davvero numerosi modi di dire!). Il vile è Papa Celestino V, che abdicò nel 1294. Oggi, soprattutto nel linguaggio giornalistico, si usa in riferimento alla rinuncia a una carica o a un incarico di rilievo, soprattutto se tale rifiuto è fatto in modo plateale.
Lasciate ogni speranza voi ch’entrate: ancora una volta, siamo nel Canto III dell’Inferno, versi 6-9: «Dinanzi a me non fuor cose create / se non etterne, e io etterno duro. / Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate». È la scritta incisa sopra il portone dell’Inferno, che incute terrore in Dante. Virgilio, a quel punto, lo prende per mano per condurlo nel regno delle tenebre. I primi versi si riferiscono al fatto che l’Inferno venne formato dopo le cose create direttamente da Dio (gli angeli, le sfere celesti ecc.), destinate a durare per sempre, e che esso è a sua volta eterno. L’ultimo verso, ovviamente, allude al fatto che le anime dannate devono, entrando nell’Inferno, abbandonare qualsiasi speranza: la loro pena è per sempre. Oggi la frase si usa perlopiù in modo scherzoso davanti a una prova ardua o a un compito percepito come particolarmente difficile da affrontare.
Non mi tange: non mi interessa, non mi tocca, non mi riguarda. «Io son fatta da Dio, sua mercè, tale, / Che la vostra miseria non mi tange», leggiamo ai versi 91-92 del Canto II dell’Inferno. È Beatrice a parlare; e lo fa per rassicurare Virgilio del fatto che nulla di ciò che dovesse accadere all’Inferno potrà in alcun modo ferirla, perché lei è “fatta da Dio” e per questo le miserie umane, per l’appunto, non la tangono, non la toccano.
Non ti curàr di lór, ma guarda e passa: anche stavolta il detto si rifà al Canto III dell’Inferno, versi 49-51, seppure con qualche differenza: «Fama di loro il mondo esser non lassa; / misericordia e giustizia li sdegna: / non ragioniam di lor, ma guarda e passa». Virgilio sta indicando a Dante i vili, gli ignavi (cfr. al punto successivo), di cui non è rimasta nessuna traccia nel mondo; per questo, vanno semplicemente ignorati, senza perdere neanche un attimo in più a ragionare sul loro conto. La versione popolare del verso, usatissima sui social, viene usata per esortare una persona a non far caso ai detrattori o a coloro che la stanno insultando, andando, appunto, oltre, senza curarsene. Ma si sappia che il verso dantesco, in realtà, è “non ragioniam di lor”!
Senza infamia e senza lode: si impiega per riferirsi a una cosa, a un lavoro o a una persona mediocri, senza particolari qualità. È stata usata da Dante nel III canto dell’Inferno, versi 35-36, per indicare le persone che si rifiutano di prendere una posizione per pigrizia, per indifferenza o per quieto vivere (successivamente definite “ignavi” dalla critica dantesca): «coloro / che visser sanza‘nfamia e sanza lodo». Anche Antonio Gramsci ce l’aveva con gli indifferenti, che richiamano, nella definizione del pensatore, proprio gli ignavi di Dante: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti”.
Stai fresco / stiamo freschi: usato ironicamente, come si fa con “tutto a posto”, con significato antifrastico, cioè per dire, al contrario, che andrà tutto male, il modo di dire deriva dal verso 117 del canto XXXII dell’Inferno, «là dove i peccatori stanno freschi». Il riferimento è al lago Cocito, «un lago che per gelo avea di vetro e non d’acqua sembiante», come descrive Dante nei primi versi del canto, nel quale i peccatori stanno immersi in maniera proporzionale alla gravità del peccato da loro commesso.