Jazz, quando la musica lascia senza parole
a cura di Vera Gheno

Il 30 aprile è la giornata mondiale del jazz, istituita dall’UNESCO nel 2011. L’interesse dell’UNESCO per questo genere musicale non si ferma semplicemente… alla musica, ma deriva dal ritenerlo “strumento per la pace, il dialogo e la comprensione reciproca”, come si può leggere sul sito dell’organizzazione.
Il nome jazz (in Italia scritto, seppure raramente, anche nella forma giazz), usato anche come aggettivo (musica jazz), ci arriva dall’inglese, e l’etimologia, a detta degli inglesi stessi, è incerta. Quel che si sa è che un paio di anni prima di indicare il genere musicale il termine significava, nello slang americano del 1912,“energia, eccitazione, verve, irrequietezza; animazione, eccitabilità”; dal 1915 acquisisce anche il significato che conosciamo oggi in Italia, dove arriva nel 1919: “genere musicale di origine afroamericàna (cioè appartenente alla popolazione americana di origine africana, 1936), caratterizzato dall’uso costante del tempo binàrio (costituito da due parti, dal latino bināriu(m) ‘doppio’, da bīni ‘a due a due’), della poliritmìa (impiego simultaneo di strutture ritmiche diverse nelle singole voci di una composizione, 1931), del libero contrappùnto (dal latino medievale [ponere punctum] contra punctum ‘[mettere nota] contro nota’, 1508, arte del comporre sovrapponendo più linee melodiche simultanee) e dal particolare linguaggio melodico (dal greco melōidikós, da melōidía ‘melodia’, sec. XIV)”.
Il jazz nasce alla fine del XIX secolo nel bacino del fiume Mississippi. Deriva dall’elaborazione, da parte degli afroamericani, di quattro elementi: i canti di lavoro e quelli religiosi degli schiavi (work songs e spirituals), il blues (dalla locuzione to have the blues ‘essere malinconico’, “genere vocale e strumentale proprio dei neri americani derivante dalla fusione di elementi della tradizione nera e occidentale”), che era un’espressione musicata di protesta sociale, il ragtime (in inglese “tempo a pezzi”, “tipo di musica sincopata da considerare quale immediato predecessore del jazz”). Una delle sue caratteristiche più note è quella di lasciare un ampio spazio di improvvisazióne (da improvvisare, a sua volta da improvviso, che deriva dal latino improvīsu(m), composto di in- e provīsus ‘previsto’, da providēre) soprattutto al solìsta (da solo, 1851), che può creare melodie momentanee anche completamente svincolate dal resto della composizione eseguita dall’orchèstra (dal latino orchēstra(m), dal greco orchḗstra ‘spazio per le evoluzioni del coro’, da orchêisthai ‘danzare’, 1556), fino ad arrivare alle cosiddette jam session (letteralmente “riunione-marmellata”), ossia un “incontri informali di solisti di musica jazz, in luoghi estranei al circuito normale, momento di confronto e di innovazione”.
Nel jazz vengono impiegati molti strumenti: sassòfono (adattamento del frances esaxophone, composto dal nome dell’inventore, il belga A. Sax (1814-1894), e -phone ‘-fono’, 1895), ottόni (dall’arabo lāṭūn ‘rame’, con la caduta della l- iniziale sentita come articolo: lottone è diventato l’ottone, 1271; l’insieme degli strumenti a fiato in ottone, quali corni, trombe, tromboni, tube), pianoforte, percussioni varie, strumenti a corda come il banjo. Questo strumento, somigliante alla chitarra, con una cassa armonica rotonda e piatta sul fondo, introdotto in America dagli schiavi africani ha un nome dall’etimologia poco chiara: c’è chi lo fa derivare da bandura, uno strumento a corde pizzicate tipico dell’Ucraina, storpiato nella pronuncia degli schiavi, il cui nome viene a sua volta dal latino pandūra, dal greco pandôura ‘strumento musicale a tre corde’.
Inizialmente, nella storia del jazz, abbiamo il dixieland, così definito dal luogo di provenienza, gli ‘stati del Sud’, chiamati con una espressione di origine incerta Dixie(land) ‘la terra (land) di Dixie (soprannome dei neri)’, “jazz bianco tradizionale, sorto a New Orleans e diffusosi successivamente a Chicago e a New York” fino alla metà degli anni Venti del Novecento; tra il 1925 e il 1940 è il periodo della maturità, definito anche hot jazz (‘jazz bollente’); negli anni ’35-’45, grazie anche allo swing “caratteristico modo di accentuazione anche sui tempi deboli, da cui deriva un costante impulso ritmico, proprio del jazz”, dall’inglese to swing ‘brandire, vibrare ruotando (una lancia, un colpo)’, il jazz diviene un genere di consumo di vasta popolarità.
Successivamente, in parziale rigetto del “consumismo musicale”, sorgono:
– il be-bop (creazione onomatopeica che indica l’incoerente dissonanza di questo tipo di musica),“stile di jazz, nato negli USA negli anni ’40; si riallaccia al blues ed è caratterizzato da libertà degli strumenti ritmici, dall’uso di tempi speciali e salti di note”;
– il cool jazz, “stile di jazz affermatosi alla fine degli anni ’40 del Novecento come evoluzione del be-bop, meno istintivo e più ricercato dal punto di vista armonico e timbrico”;
– l’hard bop, “stile jazzistico statunitense nato negli anni 1955-60 all’interno del recupero del be-bop, rispetto al quale presenta accentuazioni ritmiche più marcate e sonorità più accese”;
-il funk, parola che cambia significato proprio grazie al jazz negli anni ’50, dato che inizialmente era considerato sconveniente e osceno, poiché il significato originario è “maleodorante” e che successivamente identifica uno stile jazzistico venato di profonda tristezza, con suoni spesso aspri;
– il free jazz “denominazione, a partire dagli anni ’60, della corrente jazz americana caratterizzata dall’affrancamento dalle regole tonali del jazz classico, dalla totale libertà del solista e dall’uguaglianza di tutti gli strumenti”.
Ho due aneddoti personali riguardanti il mio (scarso, ahimè) rapporto con il jazz. Il primo risale agli anni della mia fanciullezza, quando mio papà insegnava ai corsi estivi dell’Università per Stranieri di Perugia: ci spostavamo nel capoluogo umbro per diverse settimane, e quindi era naturale andare a sentire i concerti in piazza di Umbria Jazz. Piccolina com’ero, non è che riuscissi davvero a capire quella musica spesso dissonante, sincopata, certo non immediata; e quindi, ricordo che una sera mi infilai sotto il palco, in un luogo dove “i grandi” non potevano infilarsi, facendo impazzire i miei genitori che ci misero un bel po’ a convincermi a uscire. Era la mia personale forma di protesta, probabilmente. Forse per quel “trauma”, a lungo non ho proprio sopportato questa forma musicale; ma poi, nel 2015, ho fatto un viaggio negli Stati Uniti con alcuni amici (una “verticale”: dalle cascate del Niagara a Key West, in Florida, tutto con una macchina a noleggio) e, verso la fine, in un agosto caldissimo, siamo arrivati a New Orleans. Una città dall’atmosfera indescrivibile, vibrante, intensa, dolorosa. Lì ho sentito suonare il jazz delle origini per strada, da gruppi di afroamericani magri, nervosi, completamente trasfigurati dalla musica che suonavano, incuranti del sole accecante. Ecco, quell’esperienza mi ha riconciliata con questa musica; oggi, quando la sento suonare da qualche parte, ripenso al talento e all’impegno di quei musicisti magici e sorrido.