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E così, Franco Battiato ci ha lasciati. Faccio fatica a crederci, perché le sue canzoni hanno accompagnato la mia vita, come credo quella di molte altre persone. Da ragazzina non lo apprezzavo troppo – i suoi testi mi parevano astrusi e distanti dalla mia esperienza di vita – ma crescendo, e ascoltando meglio non solo la musica, ma anche le parole, ho iniziato ad apprezzare la ricchezza dei riferimenti del cantante. Mi ricordo di lunghi viaggi con una macchina in prestito, nel cui mangianastri era perennemente inserita un’unica musicassetta: “L’era del cinghiale bianco”. Forse fu proprio viaggiando su per quei tornanti di montagna, accompagnata da quella cassetta, che ho fatto amicizia con la sua musica.

Ho sempre avuto la sensazione che Battiato sentisse tutto il mondo, e tutte le ere, come casa sua, e che in tutte si sentisse a proprio agio. Lo mostra, secondo me, la ricchezza di riferimenti geografici: dai campi del Tennessee ad Alexanderplatz, Berlino, dalle sponde del Mar Nero a Pechino, da Tunisi a Parigi. Un sito web, Mappiato, sta raccogliendo tutte le tracce geografiche della discografia battiatesca. Con le sue canzoni, il Maestro ha toccato i cinque continenti, compresa l’Isola Elefante, nell’Antartico, dove oggi si trova il monumento eretto in memoria di Shackleton.

Il viaggio di Battiato è geografico, certo, ma anche umano: sono molti i riferimenti a popoli, persone, personaggi: gesuìti (cioè ‘della compagnia di Gesù’, 1583) euclidèi (cioè razionali, rigorosi), danzatόri bùlgari, balinési (‘abitanti dell’isola di Bali), sciamàni (dall’inglese shaman, che è dal tunguso šamān, a sua volta dal pali [medio indiano] samana, derivato dal sanscrito śramana ‘monaco’, 1838), bόnzi (dal portoghese bonzo, dal giapponese bōzu, ‘monaco buddista’, 1549), Dervisches Tourners ossia dervìsci (dal persiano darviš ‘povero’, 1521, ‘membro della confraternita musulmana sufica dei Dervisci, che si propongono l’unione mistica con Dio mediante l’ascesi e la danza’) rotànti, zìngari (dal greco. Atsíganoi, nome di una tribù dell’Asia Minore, 1470, ‘chi appartiene a una popolazione originaria dell’India, diffusasi in Europa fin dal XII secolo’) ribèlli, studènti di Damàsco (capitale siriana, arabo Dimašq), squaw (adattamento inglese di una voce indiana delle tribù della famiglia algonchina, 1908, ‘sposa, moglie, nel linguaggio degli Indiani dell’America settentrionale’) pèlle di lùna, un mònaco birmàno (della Birmania, oggi Myanmar; il nome deriva dall’inglese Burman, 1828), geishe (vocabolo giapponese, propriamente ‘danzatrice’, composto di sha ‘persona’ e gei ‘d’arte, artistico’, 1905), prostitùte lìbiche, pròfughi (dal latino prŏfugu(m), da profŭgere ‘fuggire via’, sec. XIV) afgàni

Questi sono solo alcuni dei personaggi che conosciamo tramite le canzoni del Maestro, che sembrava avere un debole per creare immagini evocative semplicemente accostando un sostantivo a un aggettivo: e così, troviamo anche le sigarétte tùrche, i valzer (dal tedesco Walzer, da walzen ‘spianare, ballare’, 1826, ‘danza a coppie di origine tedesca, in tre tempi a movimento allegro o moderato’) viennési, le campàne tibetàne, le mùsiche balcàniche, le dànze sufi (derivato, attraverso l’inglese, dall’arabo ṣūfī, ‘coperto di lana’, da ṣūf ‘lana’, perché i devoti vestivano un saio di lana di cammello, 1494, ‘dottrina e organizzazione mistiche musulmane che ritengono possibile il contatto diretto con Dio attraverso mezzi estatici e meditazione’), le mètro giapponési, il pulvìscolo (dal latino pulvĭsculu(m), diminutivo di pŭlvis ‘polvere’, 1499) londinése, i ballétti rùssi. Con l’aggiunta di un semplice aggettivo, ecco che dei sostantivi tutto sommato normali, come le sigarette o il pulviscolo, diventano delle micro-polaroid di luoghi lontani e tradizioni esotiche.

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I testi sono colmi di riferimenti culturali: dal “senso del possesso che fu prealessandrìno” al “coro delle sirene di Ulisse”) e pop (“with a little help from my friends” titolo di un brano dei Beatles contenuto nell’album “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”; “Le mille bolle blu”, canzone di Mina), con uno sguardo talvolta disincantato, “pratico”, sul presente (le bronchiti coi vapori e il Vicks Vaporub, controllori di volo). Ma emerge anche un altro interesse di Battiato: quello per la scienza. A parte la ricerca del famoso cèntro di gravità (o baricèntro, ‘Punto di applicazione della risultante delle forze peso agenti su ogni singola parte costituente un corpo. In un solido omogeneo il baricentro coincide con il centro di simmetria’) permanènte e le corrènti gravitazionàli, c’è un brano intitolato direttamente Mòto browniano (dal nome di chi per primo lo studiò, il botanico scozzese Robert Brown (1773-1858), 1868, ‘movimento continuo e disordinato di particelle solide o liquide microscopiche in sospensione in un fluido, dovute all’agitazione termica delle molecole del fluido stesso’); e non basta: nel brano Fenomenologia sono inserite le due formulex1= A*sen (ωt) e x2= A*sen (ωt + γ), che rappresentano in due dimensioni le sinusoidali che compongono la doppia elica del DNA. Ma c’è di più: nel 1972 Battiato composte una canzone, “Pollution”, che di fatto è una piccola lezione di fisica sulla portata: “La portata di un condotto / è il volume liquido / Che passa in una sua sezione / Nell’unità di tempo: / E si ottiene moltiplicando / La sezione perpendicolare / Per la velocità che avrai del liquido. / A regime permanente / La portata è costante / Attraverso una sezione del condotto”. Non molti sarebbero stati in grado di musicare un simile testo!

Battiato non temeva di certo le parole difficili, auliche, specialistiche, rare. Nelle sue canzoni incontriamo cariocinèsi (composto di cario– e –cinesi, 1884), equivalente a mitòsi, ossia ‘l’insieme delle trasformazioni nucleari che, nel corso della moltiplicazione cellulare, consente di mantenere costante il numero dei cromosomi nelle cellule figlie’; fisiognòmica (dal greco physiognōmonía, 1579) ‘disciplina parascientifica che cerca di interpretare i caratteri di un individuo dall’aspetto esterno, specialmente dai tratti del viso’; forièro (dall’antico francese fourrier ‘foraggiatore’ che precedeva le truppe, 1557), ‘che precede e annuncia’; kathakali, un teatro-danza indiano, originario dello stato del Kerala e risalente a circa quattrocento anni fa; kundalini (voce sanscrita, propriamente ‘circolare’, 1985) ‘secondo l’induismo, energia presente in ogni essere umano che si manifesta come forza generativa’; mescalìna (dallo spagnolo mezcal, nome di un tipo di agave e quindi del liquore che se ne estrae: da mexcalli, voce indigena del Messico, 1957) ‘alcaloide estratto da una cactacea messicana e dotato di proprietà allucinogene’; sarcofagìa (che nel vocabolario non si trova, viene dal greco antico e significa ‘essere carnivori’).

Allo stesso modo, il Maestro amava cantare in molte lingue diverse. Talvolta, questa tendenza si manifesta attraverso testi in cui è comune il code-switching, cioè il passaggio, all’interno dello stesso periodo, da una lingua all’altra, in altri casi i testi sono integralmente cantati in altre lingue. Incontriamo degli inserti tedeschi in “Ein Tag aus dem Leben des kleinen Johannes”; il francese nel brano “La canzone dei vecchi amanti”; il portoghese in “Secunda feira”; l’inglese in “No time, no space”; lo spagnolo in “Sentimiento nuevo” e in molte canzoni che Battiato ha ricantato in lingua per la gioia dei suoi fan in Spagna; giapponese in “Le aquile volano a stormi”; “Fogh In Nakhal” è cantata interamente in arabo; “Credo” in latino; “Di passaggio” contiene dei versi in greco antico; “U cuntu” è in siciliano, come pure “Caliti junku”, canzone nella quale Battiato canta: “Un antico detto, cinese o tibetano, forse arabo-siciliano, dice così: Caliti junku ‘ca passa la China, caliti junku, da sira ‘a matina”.

La mia sensazione è che Franco Battiato, nel suo misticismo, nella sua perenne ricerca di un altrove e di un’alterità che però per lui erano casa, auspicasse davvero un ritorno all’“Era del cinghiale bianco”: un’epoca mitica, cantata dai Celti, in cui le persone mettevano – e forse metteranno – la sapienza e la conoscenza al primo posto, un’età dell’oro comune a tutte le culture, di pace e splendore.