Nella traduzione di una lingua come il coreano, riflesso di una cultura tanto distante dalla nostra, ci si imbatte a ogni piè sospinto in situazioni linguistiche particolari capaci di costituire spesso motivo di grande incertezza e riflessione. Ciò vale a maggior ragione per la lingua antica: se poi si aggiunge il fatto che una parte non indifferente della letteratura coreana classica è scritta in cinese, allora si comprende come il novero dei casi “spinosi” sia talmente ampio da portare il sottoscritto ad elencarne qualcuno, prima ancora di soffermarsi su un’espressione particolare. Ma partiamo dalla letteratura coreana classica, che nel caso della Corea va dalle origini fino a tutto il XIX secolo.

La letteratura coreana classica, scritta o no in cinese, è letteralmente farcita di citazioni tratte dai classici cinesi stessi, nonché di espressioni idiomatiche e simbolismi (non di rado anch’essi mutuati dalla cultura cinese) che risultano astrusi perfino al lettore coreano di oggi. Così, l’espressione “cavalcare un drago” vuol dire “aver avuto un colpo di fortuna”, mentre con “cantare la canzone del kyŏgyang (cinese: jirang)”, riferito al popolo, s’intende “attraversare un periodo di pace e prosperità”. Ma i problemi non finiscono certo qui. I coreani, infatti, leggono i nomi e i termini cinesi con la pronuncia indigena, spesso molto diversa dall’originale, e ciò ne rende difficile l’identificazione non solo al lettore profano, ma perfino a studiosi dell’Estremo Oriente che non siano specificatamente specialisti della Corea. Così, per esempio, il grande poeta cinese Li Taibo diventa, con la pronuncia coreana, “Yi T’aebaek”.  A questo punto il traduttore si trova in un vero e proprio dilemma: riportare i nomi con la pronuncia originale cinese (ma facendo violenza al testo) o riportarli con la pronuncia coreana, rendendoli di fatto  non identificabili? Personalmente scelgo la seconda soluzione, riportando poi in nota la pronuncia cinese. D’altra parte, la nota andrebbe comunque fatta al fine di spiegare al lettore occidentale chi fosse mai stato Yi T’aebaek, visto che nella letteratura questo personaggio è preso come autentica pietra di paragone per chiunque si cimenti coi versi.

Un altro problema della letteratura coreana antica e moderna è costituito dai ricorrenti riferimenti a cose semplicemente inesistenti nella cultura occidentale. Termini come “maru” e “changdokdae” (ma gli esempi potrebbero essere innumerevoli), inerenti alla sfera delle abitazioni tradizionali, sono letteralmente intraducibili. Nel primo caso, si indica la piattaforma lignea, sollevata dal terreno, sulla quale si apre l’accesso allo spazio abitativo, e per questo viene solitamente tradotto con “terrazza” o “veranda”, laddove invece non è nulla di tutto questo, almeno nel modo in cui noi intendiamo tali elementi architettonici. Il termine “changdokdae” si riferisce invece a quel particolare spazio scoperto, fuori dall’abitazione vera e propria, dove si stipavano le giare contenenti degli ingredienti base della cucina coreana, come le paste fermentate di legumi. Tradurre questo termine con “dispensa” è ovviamente riduttivo e fuorviante.

La lingua coreana fa poi un largo uso di termini onomatopeici, che, se accompagnati ad altri vocaboli, sono capaci di dare delle sfumature difficilmente riportabili nella traduzione. In questo modo, “kŏrŏkada” vuol dire propriamente “camminare”, ma “hwŏlhwŏl kŏrŏkada” vuol dire “camminare a passo leggero, un po’ ondeggiante come volo di farfalla”: indizio, questo, di un animo sereno. Come renderlo in italiano, volendo rinunciare a una lunga e leziosa perifrasi?

Infine, ritorno a quello che sarebbe dovuto essere il tema principale di questa rubrica, ossia il vocabolo ostico, senza un reale corrispondente nella nostra lingua, intorno al quale si gira e si rigira fino ad arrivare ad una proposta di traduzione accettabile. Potrei portare numerosi esempi, ma farò riferimento solo ad un termine che ha colpito la mia immaginazione fin dal tempo in cui muovevo i primi passi nella conoscenza del coreano. Questo termine è il verbo descrittivo “ŏgurhada”, che capita a volte di veder tradotto come “essere frustrato”. In realtà, questo termine significa molto di più, indicando uno stato d’animo preda, nello stesso tempo, dell’amarezza, della rabbia, della tristezza, del rimpianto, dell’impotenza, del dispiacere, della delusione, della disperazione: di fatto, “ŏgurhada” è l’insieme di tutto ciò e, nello stesso tempo, non è nulla di ciò in particolare. Non a caso, questo termine si usa, fra l’altro, a proposito di chi è stato punito ingiustamente, per una colpa non commessa, o della squadra di calcio che, dopo aver dominato la partita, magari perde all’ultimo secondo per un’autorete. Come renderlo in italiano? Ho creduto che il concetto di “amaro” sia quello più accostabile allo stato d’animo espresso dal termine coreano: in questo, mi è venuta in soccorso l’espressione dialettale siciliana “avere la bocca amara”, usata in circostanze simili. “Ŏgurhada”, dunque, può essere tradotto con “profondamente amareggiato”, “sconvolto dall’amarezza”, “in preda all’amarezza”, “con l’animo gonfio d’amarezza”. Ma se la traduzione in italiano presenta certamente dei problemi, il vocabolo coreano acquista improvvisamente in Italia, fra il serio e il faceto, straordinaria forza evocativa e fascino nella ristretta cerchia degli addetti ai lavori. Ben mi ricordo, a tale proposito, di come una volta, entrando in classe, dissi ai miei studenti: “Ehi, ragazzi, non fate caso alla mia faccia scura: il fatto è che oggi sono… ogurato!” . Gli studenti ovviamente capirono subito, e da allora “essere ogurato”, in quanto frutto di una bizzarra e divertente contaminazione linguistica, è diventata, sia pure in un ambito assai circoscritto, una vera e propria espressione “mascotte” o, se si preferisce, “cult”.

©Maurizio Riotto