Joyce - Ulisse - nuova edizioneQuando all’amico, per certi versi erede, per qualche tempo segretario, di James Joyce, Samuel Beckett, fu chiesto da un intervistatore sprovveduto: “Are you an Englishman?” lui – irlandese  esule a Parigi dove si era fatto strada scrivendo in francese – rispose criptico: “Au contraire”. Secondo percorsi e destini speculari, quando a Trieste domandarono all’esule James Joyce: “Will you ever return to Dublin?”, lui rispose “I never left it”.

Joyce mantenne per tutta la vita un passaporto britannico – principalmente perché questo gli consentiva di approfittare di piccoli prestiti da parte dei consoli inglesi, qua e là in Europa. Eppure la sua scrittura, dagli aspetti culturali e letterari fino, e soprattutto, a quelli linguistici, altro non sembra se non un’autentica “vendetta” nei confronti dell’inglese, lingua che egli usa strumentalmente per forzarne le regole, scardinarne le strutture, dissolverne l’aura di universalità, ricreandone così a suo modo una variante onirica dal forte sapore irlandese.

Tutta l’opera di Joyce, come tanti studi di questi anni non mancano di sottolineare, è scritta, cifrata, intessuta a partire da una matrice linguistica che dell’inglese non ha se non l’aspetto esteriore, mentre l’anima soggiacente risponde a registri, lessico, sintassi, retoriche essenzialmente irlandesi.

Nel mondo, non solo in Italia, molte traduzioni dei suoi libri soffrono talvolta del mancato, o spesso dell’inadeguato riconoscimento di tale scarto, che da linguistico diviene culturale, cogliendo solo in parte quei marker appartenenti al cosiddetto Irish English che ne scandiscono la vitalità in senso, se vogliamo, “anti-inglese”. Ciò è dovuto certamente a un misunderstanding storico di fondo, secondo cui le sue opere sono state in molti casi tradotte da specialisti e filologi della letteratura inglese, non sempre attentissimi o formati al loro fondamentale sostrato irlandese. Di conseguenza, sembra in molti casi mancare, nell’enciclopedia di tanti traduttori joyciani, proprio quell’expertise legata alla conoscenza ravvicinata degli usi dell’Irish English.

L’Irish English non è nient’altro se non una delle tante varianti regionali dell’Inglese globale, variante che ha al suo interno tutta una serie di sfaccettature legate alle varie zone in cui questo dialetto viene parlato. Joyce fa ampio uso di molte sotto-varietà dell’Irish English, dalla parlata dell’ovest, evidente nelle parodie dello stile di Synge, fino a quegli usi dublinesi nominati da alcuni, appunto, Dublinese (pronuncia approssimativa: Dobliniz).

In questa luce, non mi ha mai stupito, nell’ottima versione italiana dell’Ulisse di Giulio De Angelis, con la revisione di Melchiori, Izzo e Cambon, una stranezza che occorre proprio nelle prime pagine. Si tratta di una parola pronunciata da un irritato Buck Mulligan, dopo aver raspato nervosamente nelle tasche dei suoi pantaloni. La parola in questione è scutter, resa da De Angelis, se non ricordo male, con qualcosa come “fila via,” “scappa via,” o altre scelte di questo tipo. In effetti, negli usi britannici, la parola può essere un verbo, riferito principalmente ad animali, con il significato di “to move hurriedly with short steps,” ed è questa, mi sembra, la strada che il traduttore segue. Tuttavia, tale scelta non chiarisce bene al lettore a chi sia diretta la battuta di Mulligan, se a Stephen che gli presterà un fazzolettaccio, o a se stesso, quasi fosse il frammento di una sorta di monologo interiore anomalo e un po’ schizofrenico, in quanto pronunciato ad alta voce. Oppure, il destinatario potrà essere il mare circostante, l’aria del mattino, i cattivi pensieri, e chi più ne ha più ne metta. La traduzione è sempre interpretazione, e l’ambiguità è la cifra stilistica di un libro come Ulisse, quindi ben venga una buona versione “prismatica,” che rifranga la luce dell’originale in mille percorsi e rivoli. Tuttavia, nello specifico, la soluzione alla crux traduttiva in questione non richiede troppi sforzi ermeneutici, ma va ricercata proprio pescando nel grande “mare verdemocciolo”  dell’Irish English.

La parola scutter identifica infatti, in certe parti di Dublino, il cosiddetto watery stool, un tipo di diarrea, per così dire, “a scoppio”. Nel resto dell’isola di smeraldo il lemma assume il significato più generale di “cacca”. Viene spesso usato in maniera enfatica, una sorta di variante nobile dei tanti “che disdetta”, “mannaggia”, ecc. ed è per questo che la mia resa nel testo è “merda”. Il che fa apparentemente tornare i conti, perché Mulligan in quel momento è effettivamente irritato dal fatto di non riuscire a trovare, in nessuna delle tasche, un fazzoletto per pulirsi il viso dalla schiuma da barba.

Nell’ottica dello slang irlandese, il caso di scutter è interessante anche per altri motivi. Oltre a un sostantivo, può essere anche usato in modalità predicativa. Se, infatti, al ritorno da un pub di Dublino, camminando incerti e con passo malfermo, qualcuno vi dirà: “You look scuttered, my friend,” non staranno insinuando che siete vergognosamente sporchi, ma si starà alludendo al vostro stato piuttosto avanzato di alterazione alcolica. Ed è interessante notare, visto che i percorsi dell’Irish English sono esuberanti, e visto che l’Irlanda è patria di migranti, come questo uso del termine abbia attraversato l’Atlantico per generare un calco linguistico nell’American English. Ed è così che, se in America, al ritorno da un “Bar & Grill” vi diranno, notando il solito passo malfermo: “Man, you look shit-faced”, non staranno commentando lo stato indicibile del vostro volto impiastrato inenarrabilmente, ma suppergiù vi staranno dicendo: “sei ubriaco fradicio, amico mio”.

Questa disquisizione ben si impianta, mi pare e spero, su quello che è uno dei leitmotiv di Ulysses, ovvero l’insistenza più che scatologica sulla corporeità, che da un lato ci presenta il grande Bloom, in una delle scene più memorabili, intento a leggere la short story vincitrice di un premio letterario accovacciato sulla latrina, e dall’altro conduce a quella che è forse la più illuminante definizione “joyciana” di letteratura, definita appunto “art with a capital F” (a voi il piacere del dizionario).

 

© Enrico Terrinoni