Non mi ritengo un integralista della parola. Non mi scandalizzo, per esempio, se leggo pick-up tradotto come “furgone”. Per come la vedo io, comunque, è meglio lasciare pick-up; esiste “camionetta”, è senza dubbio più corretto ma a me fa pensare, immancabilmente, alla Celere di Scelba (per sentito dire), o alle più miti guardie forestali di Vallombrosa (per esperienza). Troppo connotato, insomma. Certo più di “furgone”.
Però le rispetto molto, le parole: mi danno da vivere, e a volte cerco di restituire il favore. E poi le parole sono davvero importanti, più di quanto tanti pensino e a volte per ragioni che non vorremmo. Penso alla ex Jugoslavia, perché è qualcosa che ho visto accadere con una forza che non conoscevo: non se ne parlò molto, qua, e tuttavia mentre le varie milizie si occupavano dei membri dell’etnia nemica, battaglioni di linguisti individuavano e toglievano dal serbo-croato le parole “troppo serbe” o “troppo croate”, aiutati – con zelo degno di scopi migliori – dalle rispettive gerarchie ecclesiastiche, le uniche strutture capaci di, e disposte a, risalire indietro nel tempo fino alle due lingue distinte. Parole, dunque, come un nemico da eliminare ma anche, in un certo senso, come vittime.
Chi parla male, si sa, pensa male. Chi è povero di parole rischia la povertà di spirito, e non come intende Matteo. Don Milani amava dire che chi conosce cento parole sarà sempre servo di chi ne conosce mille: oggi pare che funzioni al contrario, soprattutto quando la realtà del mondo sembra declinarsi in appena una manciata di termini, sempre quelli e tutti sgradevoli. Forse però, piace pensare, è ancora vero – qualcuno lo avranno pure, alle spalle, i nostri padroni che conoscono solo cento parole…
Si dirà: la lingua si impoverisce comunque, tende per natura a semplificarsi, e via così. D’accordo, se qualcuno sul serio ci tiene. Va benissimo. Eppure a volte vale la pena e bisogna fermarsi, resistere. Anzi, gridare: “Mai più un passo indietro”.

Anni fa tradussi per Sellerio un racconto lungo di Susan Glaspell (1876-1948), A Jury of Her Peers (1917), che esiste – immutato nella sostanza – anche come atto unico teatrale (Trifles, 1916). La vicenda, in estrema sintesi (una bella “iperproposizione” alla Umberto Eco), è questa: “Una donna salva dalla prigione un’altra donna, nascondendo la prova che potrebbe incriminarla per la morte del marito, dopo avere scoperto che costei era, da tempo, vittima di abusi domestici”.
A un certo punto, passeggiando per la cucina della sospettata in cerca di indizi, il procuratore della contea (l’uomo che dovrebbe incriminarla) si asciuga le mani sul “roller towel”. Si capisce subito che cos’è – lo si vede ovunque: al ristorante, sull’autostrada, all’ospedale. È quella specie di asciugamano meccanico, a rulli intercambiabili. All’epoca – ma anche adesso, almeno in Inghilterra – era un semplice anello di tessuto che ruotava intorno a un’anima (un bastone) di legno.
Come si chiama però in italiano, mi domandai? Esiste una parola specifica per indicarlo, nella nostra lingua? Esisterà, pensai, ma non si usa; nessuno infatti la conosceva, nemmeno io. Eppure bisognava trovarla. Per il procuratore, infatti, gli oggetti presenti in quella cucina sono “bazzecole” (trifles), cose da donne, cose poco importanti. La sospettata e colei che la salverà, invece, in quegli oggetti si riconoscono. Fanno parte della loro identità. Accompagnano quei gesti quotidiani che non sono stati “maledetti” solo nei nostri anni Settanta. Sono oggetti importanti e io, traduttore, che stavo – come l’autrice – dalla parte delle due donne, dovevo chiamarli col loro nome. “Asciugamano a rullo” poteva andar bene per quello sciovinista del procuratore, ma non per me.
Ricordo che allora, con gli strumenti che avevo a disposizione, ebbi qualche difficoltà ad arrivare a un traducente, alla fine però – dopo qualche ora, forse – ecco la parola: bandinella! Qualche discussione con la curatrice del volume, ma alla fine (del resto, si occupava di gender studies) la mia linea passò, e bandinella fu!

Adesso, ripensandoci, capisco che non fu soltanto puntiglio. L’impoverimento del linguaggio, e quindi della nostra vita, è anche frutto del nostro quotidiano rinunciare e voltare lo sguardo. Dicono che la volontà di dare un nome alle cose – nominarle – sia un modo, il primo, per possederle; qui, però, sono altre due le forze che agiscono.
La prima: recuperare bandinella significa ricordare al lettore italiano, che è anche un parlante, che questo termine esiste, e serve a indicare correttamente un certo oggetto. Si dice che nomina sunt consequentia rerum: in questo caso, avviene quasi il contrario. La ricerca parte dall’oggetto e torna alla parola, per riprendere a usarla e, idealmente, salvarla.
Recuperare bandinella significa anche, però, mettersi in condizione di rispondere alla domanda di un ipotetico bambino: “Come si chiama, questo?” e, nel rispondere come si deve, dare al bambino un altro piccolo tassello per conoscere il mondo. Nominare le cose del mondo per avere, di questo, meno paura. Per sentircisi, con buona pace dei nostri padroni dalle cento parole, meno smarriti.

 

© Roberto Serrai