I «Cavalos-do-rio» angolani: la parola a Daniele Petruccioli
Tradurre Luandino Vieira, scrittore angolano di lingua portoghese, è una brutta gatta da pelare. Dalle sue parti, per il modo che ha di lavorare la lingua, lo paragonano a Joyce. Molti scrittori lusofoni africani, del resto, hanno un rapporto conflittuale con la lingua dell’ex colono. Tendono a trattarla male, un po’ per vendicarsi dei torti subiti un tempo, forse, ma anche per piegarla alla loro personale ricerca di identità linguistica. Quando si traducono, quindi, si fa una gran fatica. Ma si hanno anche le soddisfazioni più belle. Quasi all’inizio del primo romanzo di Luandino che ho dovuto tradurre – O livro dos rios (Il libro dei fiumi, uscito per Albatros nel 2010) – l’autore, per descrivere un certo fiume, usa la seguente frase: Rio cego, rio lento depois, ambaquizado, cheio de cavalos-do-rio… In questa frase ci sono due parole che non si trovano nei dizionari. La prima, ambaquizado, è spiegata in glossario dall’autore stesso: ambaquizar è un regionalismo angolano, viene da una delle lingue nazionali africane dell’Angola, il kimbundo, parlato nella regione della capitale Luanda, e vuol dire: tornar gongórico, retórico. L’altra è cavalos-do-rio, letteralmente “cavalli di fiume”. Ma che roba è? Nel Dicionário Houaiss da língua portuguesa, uno dei migliori in circolazione, cavalo-do-rio rimanda a cavalo-d’água, un essere mitologico che vive nel São Francisco, fiume brasiliano che separa gli stati nordestini di Bahia e Pernambuco, la cui principale occupazione è quella di assalire e distruggere le barche che transitano sul fiume. Poco a che fare con l’Angola, quindi. Dunque che fare? Cerca che ti ricerca, a un certo punto, su un sito angolano, trovo l’espressione in questione messa come didascalia a una bella foto di due ippopotami. Non potevo credere di essere stato così idiota. Ma certo, era ovvio! Ippopotamo vuol dire esattamente quello: cavallo di fiume. Ma se in Angola l’espressione è abbastanza comune da essere messa in didascalia alle foto pubblicate su internet, una traduzione letterale sarebbe stata altrettanto comprensibile al lettore italiano? È vero che i lettori italiani sono certamente meno deficienti del sottoscritto, ma se il legame non mi era saltato agli occhi nonostante i miei studi classici, forse nella nostra cultura il collegamento non è poi tanto ovvio. E poi come tradurre quel sostrato appunto barocco, quella commistione di neologismo e modo di dire, di radici greche e kimbundo? La soluzione è arrivata dall’altro termine, ambaquizar, quel “rendere barocco”, come spiega l’autore stesso. L’orizzonte del brano era epico, lo stile barocco… Forse si potevano unire le due cose inserendo due neologismi, magari provando a profumarne uno con qualcosa del linguaggio parlato e l’altro con un grecismo smaccato, appunto barocco. Alla fine il risultato è stato questo: Fiume cieco e poi lento, imbarocchito, potamo pieno d’ippi…
©Daniele Petruccioli