Yiddish in salsa italiana
… seguì lo splendore argenteo di un tiepido plenilunio. Accanto a noi, che fumavamo e discorrevamo vivacemente, sedevano su una cassetta di legno due ragazze vestite di nero, molto giovani. Parlavano fra loro: non in russo, bensì in yiddish.
– Capisci cosa dicono? – chiese Cesare.
– Qualche parola.
– Dài, allora: attacca. Vedi se ci stanno.
Quella notte tutto mi sembrava facile, perfino capire il yiddish. Con audacia inconsueta, mi rivolsi alle ragazze, le salutai, e sforzandomi di imitarne la pronunzia chiesi loro in tedesco se erano ebree, e dichiarai che anche noi quattro lo eravamo. Le ragazze (avevano forse sedici o diciott’anni) scoppiarono a ridere. – Ihr sprecht keyn Jiddisch: ihr seyd ja keyne Jiden! –: «Voi non parlate yiddish: dunque non siete ebrei!» Nel loro linguaggio, la frase equivaleva ad un rigoroso ragionamento.
Eppure eravamo proprio ebrei, spiegai. Ebrei italiani: gli ebrei, in Italia e in tutta l’Europa occidentale, non parlano yiddish.
Questa, per loro, era una grande novità, una curiosità comica, come se qualcuno affermasse che esistono francesi che non parlano francese. Mi provai a recitare loro l’inizio dello Shemà, la preghiera fondamentale israelita: la loro incredulità si attenuò, ma crebbe la loro allegria. Chi aveva mai sentito pronunciare l’ebraico in un modo tanto ridicolo?
(Primo Levi, La tregua, in Opere, vol. I, Einaudi, Torino 1987, p. 321)
Sono una traduttrice molto fortunata, perché in un decennio di traduzioni accettate e svolte senza praticamente mai sceglierle, mi è tuttavia capitato di tradurre un gran numero di libri molto belli. Tra questi un romanzo dell’autore sudafricano di lingua inglese Justin Cartwright, pubblicato nel 2008 da Baldini Castoldi Dalai con il titolo La canzone prima che sia cantata.
Vi si narra la storia dell’amicizia – vivissima negli anni Trenta del XX secolo e poi interrottasi di colpo all’alba del secondo conflitto mondiale – tra Elya Mendel, personaggio ricalcato sulla figura del filosofo russo-britannico di origine ebraica Isaiah Berlin (1909-1997), e Axel von Gottberg, versione fittizia di Adam von Trott zu Solz (1909-1944), avvocato e diplomatico tedesco di famiglia aristocratica che si oppose al nazismo e fu giustiziato per complicità nel fallito attentato contro Hitler del luglio ’44. Il racconto si dipana attraverso la lettura e la catalogazione delle carte personali che Elya Mendel, docente a Oxford, ha lasciato morendo all’ex allievo Conrad Senior, ora «giornalista freelance di scarso successo e uomo disilluso», e si intreccia di continuo con le vicende personali dello stesso Conrad, in un suggestivo alternarsi fra il passato e il presente, narrati anche sotto forma di dialoghi, lettere e diari.
Nei carteggi di Mendel c’è la soluzione al mistero della brusca rottura tra i due amici, e Conrad la troverà; ma al prezzo di un doloroso ridimensionamento dell’ammirazione nutrita verso il suo mentore, al punto che vicino al finale del libro il discepolo scatena contro il maestro un’invettiva furente, che in traduzione attacca così:
Fanculo a quel sorridente bastardo di Mendel. Vaffanculo, grandissimo stronzo, pagano dilettante, tu e i tuoi completi a tre pezzi e il fascino sardonico e le orecchie pelose e le cinque lingue straniere e la casa a Headington con l’elegante giardino all’inglese … e le tue carrettate di riconoscimenti e lauree ad honorem e la tessera di qualsiasi scadentissimo cazzo di circolo letterario e scientifico in tutto questo cazzo di mondo e le tue illuminate allocuzioni e l’onorificenza…
e in inglese prosegue: Sir Elya Mendel KBE and macher …
…ed eccola, la parolina che se ne sta lì quieta in attesa di poter dare un grattacapo al traduttore. Usata in un testo inglese ma tedesca, Macher; anzi no, scritta alla tedesca però yiddish, makher.
È noto che l’inglese ha adottato nel tempo diversi vocaboli dello yiddish, lingua nata oltre mille anni fa tra ebrei stabilitisi in Germania settentrionale e mista di tedesco renano, lingue balto-slave, ebraico, aramaico; dunque non è raro imbattervisi, leggendo in inglese, e ormai anche a prescindere dall’appartenenza religiosa o culturale dell’autore. Come sia andata invece per l’italiano lo spiega più sopra, con la consueta precisione ed eleganza, il chimico, scrittore, italiano ed ebreo Primo Levi: gli ebrei italiani non hanno mai parlato yiddish, e i prestiti che si ritrovano sui vocabolari della nostra lingua (o almeno su quello che io consulto di preferenza) si contano sulle dita di una mano. Oltre allo stesso yiddish, naturalmente, troviamo infatti bagel, klezmer, schlemiel e shtetl, nessuno dei quali di uso abituale. L’italiano ospita poi diversi altri prestiti dall’ebraico, e qualche voce di etimo ebraico: talune in modo più evidente, come askenazita o sionismo, ma altre, forse, sorprendenti… come marachella, oppure fasullo. Consultare per credere.
Tutto questo significa però che io devo pensarci da me, a trovare un modo per tradurre la mia parolina yiddish, e quindi far capire al mio lettore che cosa intenda Conrad quando dà a Elya del macher. Il quale, per cominciare, è uno… che «fa», dal tedesco machen, fare, appunto. E per quel che so io, della parolina stessa, mi permetto di aggiungere che il macher… «gira, vede gente, si muove, conosce, fa delle cose». Un altro tassello, dallo Yiddish Dictionary On Line: an influential person, e un altro ancora dall’elenco dei termini yiddish usati in inglese presente su wikipedia: big shot. Cioè una persona autorevole, un pezzo grosso. E perché la qualifica sarebbe ingiuriosa, allora? Cerco altri lumi sull’Oxford Dictionary of English, e lì scopro il lemma marcato come «colloquiale», frequentemente «spregiativo», e così definito: «nell’uso ebraico, persona importante, d’influenza»… ma anche fixer, cioè uno che «sistema cose, spesso in modo illecito» e peggio ancora braggart, un millantatore, uno sbruffone. Uno che si vanta, e talvolta senza averne titolo.
Insomma, in sole sei lettere: il macher è uno che fa, che sistema, e per questo pesa, conta. È quello che ti trova i documenti falsi se devi scappare, e ha sempre un cugino che ti offrirà un lavoro una volta che sarai sbarcato dal piroscafo, o un cognato che può farti avere quel che cerchi a prezzo di fabbrica, non di negozio…! Ecco, se sei un ebreo con un problema, il macher te lo risolve. E a forza di trovare soluzioni ai problemi, forse qualche macher si monta anche un po’ la testa, e comincia ad attribuirsi meriti che non potrebbe davvero rivendicare… perché lui conosce tutti, anzi «dà del tu a tutti», arriva ovunque e ovunque è noto. Come un grande studioso e intellettuale che frequenti politici e diplomatici da pari a pari. E sia di origine ebraica. E a cui il successo abbia dato forse leggermente alla testa: il macher Elya Mendel del romanzo di Cartwright è pieno di talento e di meriti, ma non sempre la racconta giusta.
A questo punto so che in italiano ci sarà un modo, anzi molti, per dire tutto questo; resta da venire a patti con quel corsivo, che a mio modo di vedere radica più a fondo l’alterità e anche la connotazione offensiva della parola. Ci penso un po’, e alla fine scrivo:
…Sir Elya Mendel, Cavaliere dell’Ordine dell’Impero Britannico e fanfarone alla giudìa.
Malgrado il passare degli anni, mi sembra che funzioni ancora.
© Isabella Zani