La Parole
Régissant nos destins

La parole dissout ou fomente le crime.
Tisse ou détruit le partage

Illumine ou foudroie les cœurs

Allumeuse de mots
Semeuse de promesses
La parole éveille nos mémoires
Et fonde nos horizons.
Andrée Chedid

 

COLLECTED SHORT STORIESJean Rhys, la celebre autrice di Wide Sargasso Sea (1966; nell’italiano di Adriana Motti Il Grande Mare dei Sargassi, Adelphi 1971), ha scritto un piccolissimo racconto intitolato I Used to Live Here Once, che si può leggere in The Collected Short Stories (Norton &Co, New York 1987). A differenza di quanto il lettore è portato a dedurre dal titolo, la narrazione si svolge in terza persona mentre, a conferma delle sue aspettative, la storia narra di un ritorno a casa. Si tratta in tutto di sei brevi capoversi nei quali una protagonista senza nome si ritrova davanti alla sua casa di un tempo, di cui conserva ricordi talmente vividi da suggerire l’arcano nitore dei sogni.

Ogni sasso del corso d’acqua da attraversare per raggiungere la strada le è noto negli attributi di forma e funzione, da quello tondo e instabile a quello aguzzo, fino a quello sdrucciolevole e perciò sempre insidioso. Perfino i cambiamenti avvenuti non fanno che sottolineare la sostanziale immutevolezza dello scenario. Tutto risulta identico, insomma, a eccezione del cielo: uno splendido cielo azzurro che appare vitreo, come la protagonista non ricorda di averlo mai visto. C’è un prato davanti alla casa, adesso tinteggiata di bianco, e c’è, stranamente, anche un’auto parcheggiata in giardino.

Il lettore a questo punto ha al suo attivo ventuno righe di testo. Dodici appena lo separano dalla conclusione. Ed ecco che cosa trova al quinto capoverso:

There were two children under the big mango tree, a boy and a little girl, and she waved to them and called “Hello”, but they didn’t answer her or turn their heads. Very fair children, as Europeans born in the West Indies so often are: as if the white blood is asserting itself against all the odds.

 

Il racconto si chiude con il ripetuto e vano tentativo del personaggio narrante di attirare l’attenzione dei due bambini, salutandoli e spiegando loro che quella era un tempo casa sua. Niente da fare, la ignorano. Solo il più grandicello registra un brivido nonostante il caldo torrido della giornata, e invita la sorellina a rientrare.

L’epilogo della storia, lapidario ed enigmatico, dice: That was the first time she knew.

Utilizzai questo testo durante una serie di incontri sulla traduzione. La scelta era dovuta alla brevità del racconto che permetteva ai traduttori di lavorare sul testo completo e anche alla sua semplicità tutta apparente che avrebbe reso possibile la messa a fuoco di alcuni inganni morfologici e sintattici.

Nulla tuttavia mi aveva preparata alla piccola sorpresa che i due bambini del quinto capoverso stavano per procurarmi. Le traduzioni realizzate rivelavano qualche esitazione qua e là, ma anche una buona cura; sebbene non definitive, mostravano la disponibilità a riflettere e capire, analizzare e decidere, che sta alla base di ogni prima stesura di un lavoro ben fatto.

Eppure, giunti dinanzi all’espressione very fair children, quattro traduttori su cinque proponevano una soluzione che non poteva essere frutto di semplice ingenuità professionale. I bambini del racconto diventavano infatti, in italiano:

1) Bambini bellissimi, come spesso sono gli europei nati nelle Indie Occidentali…

2) Bambini dalla carnagione molto chiara, come succede spesso che siano gli europei nati nelle Indie Occidentali…

3) Bambini molto belli, come succede spesso che siano gli europei nati nelle Indie Occidentali…

4) Bambini chiarissimi, come spesso accade che siano…

Come sa bene ogni traduttore, è molto raro il caso che una parola dell’originale possa avere una e una sola traduzione “esatta”. Per lo più, le parole riverberano significati possibili e compatibili, come le onde sonore prodotte da un gong.

Nel quinto capoverso di questo racconto, però, i due bambini intenti al gioco sono sicuramente e solo «bambini biondissimi». In virtù di quale scherzo genetico, infatti, agli europei nati nelle Indie Occidentali dovrebbe toccare in sorte un sovrappiù di bellezza? E, d’altro canto, perché mai il fatto di nascere ai Caraibi dovrebbe condannare gli europei a venire al mondo con una carnagione molto chiara? Non può forse un europeo nascere in Dominica ed essere di carnagione olivastra, o comunque scura?

È altresì certo che il sole violento di quelle latitudini possa contribuire, specie in tenera età, a schiarire molto il colore dei capelli rendendo bambini, eventualmente biondi, sicuramente “biondissimi”.

Come era potuto succedere ai giovani traduttori del racconto quello sciopero di ragionevolezza? Che cosa poteva averli indotti a non considerare le diverse accezioni semantiche dell’aggettivo fair non egualmente compatibili con il senso del testo? Temo che la risposta sia contenuta nei ripostigli linguistici in cui si ammassano le nostre pericolose “gabbie di corrispondenze”.

Le traduzioni che avevo tra le mani tradivano il dettato dell’originale, ma ancora di più e ancor più rischiosamente tradivano la possibilità culturale di distrarsi dalla storia delle parole che traduciamo.

Decisi allora di effettuare un banale controllo dell’aggettivo incriminato e mi resi conto che le sorprese non erano affatto appannaggio esclusivo della traduzione.

Prima di tutto cercai fair sul grande Oxford English Dictionary e cominciai a risalire il corso di questo immacolato veicolo di errori fino alla sua fonte etimologica dall’Old English faeger; dal norreno fagr, dall’antico sassone e alto tedesco fagar.

Il primo significato, inequivocabile, è beautiful: “bello, pieno di bellezza, bello alla vista – si precisa – di forma o apparenza gradevole, di bell’aspetto” (a mia volta traduco le definizioni). Segue un’intera incantevole pagina di distinzioni d’uso del bello, riferito a persone:

1385, Geoffrey Chaucer, The Legend of Good Women: 613 sche was fayr as is the rose in May; 1667, John Milton, Paradise Lost: vv.304 the fairest of her daughters, Eve; 1832, Alfred Lord Tennyson, Sisters: the earl was fair to see;

riferito a concetti astratti personificati (1750, Thomas Gray, Elegy Written in a Country Churchyard: fair science frowned not on his humble birth; 1764, Oliver Goldsmith, The Traveler: fair freedom); a espressioni di cortesia e rispetto (1588, William Shakespeare, Love’s Labour Lost, v.ii.310: Faire Sir, God save you); ad animali; a cose inanimate; a qualità visibili; a piante, suoni, odori, a tutto ciò che è onorevole e desiderabile, fortunato, attraente e lusinghiero.

Solo a questo punto arriva il capo II, quello in cui fair approda all’accezione di “chiaro”, in riferimento a carnagione e capelli. A sua volta, il capo III lo assimila a “privo di macchia, intatto, puro, nitido elegante, scevro da pregiudizi, inganni e frode; giusto, legittimo”; e poi ancora, “benevolo, favorevole, promettente, vantaggioso, distinto, amato, equo, civile, cortese, imparziale, onesto”. Kalòs kai agathòs, insomma. Sublime fusione nordica di etica ed estetica, realizzata per mezzo della luce, chiara e bionda.

Come non sorridere di fronte alla disarmante ingenuità di utilizzare un’unica parola per dire bello, biondo, chiaro, giusto e, questo è il colmo, anche imparziale?

E come non stupirsi un’altra volta constatando la capriola di gerarchie semantiche dello stesso aggettivo che, sulla pagina del Webster’s Dictionary offre di sé prima la faccia etica, proponendosi come sinonimo di “imparziale, onesto, giusto, legittimo, moderatamente buono, promettente, sereno, sgombro, levigato” e, finalmente, ma solo alla dodicesima accezione, introduce il concetto di “di colore chiaro” e alla tredicesima quello di “gradevole d’aspetto e attraente”?

Dunque in inglese fair vuol dire bello e biondo e, molte associazioni dopo, anche imparziale, mentre in americano vuol dire imparziale e giusto e, molte associazioni dopo, anche bello. Come si declinano l’etica e l’estetica del Vecchio e del Nuovo Mondo contenute in questa sillaba? Attenzione, stridono le sorelle fatali di Macbeth: Fair is foul and foul is fair.

I traduttori alle prese col racconto di Jean Rhys, mi parve a quel punto, avevano inconsapevolmente assecondato un paradosso lessicale; più che un errore, il loro, si classificava come un errare, un vagabondare sovrappensiero nella storia della lingua, svelandone e smascherandone al tempo stesso limiti e possibilità, meraviglie e vergogne.

Non diversamente dai sassi del racconto di Jean Rhys, anche le parole, anche le più semplici e note, come fair, sanno essere tonde e instabili, aguzze e sdrucciolevoli e perciò sempre, potenzialmente, insidiose.

 

© Susanna Basso (per gentile concessione della rivista Tradurre, Numero tre, autunno 2012 Copyright © 2013 tradurre. All Rights Reserved.)