Agilulfo contava e ricontava le assegnazioni di viveri, le razioni di zuppa, il numero di gavette da riempire, il contenuto delle marmitte. – Sappi che la cosa piú difficile nel comando di un esercito, – spiegò a Rambaldo, – è calcolare quante gavettate di minestra contiene una marmitta. Per nessun reggimento torna il conto. O avanzano razioni che non si sa dove finiscano e come devi segnarle sui ruolini, o – se riduci le assegnazioni – ne mancano, e subito serpeggia il malcontento nella truppa.

                              Italo Calvino, Il cavaliere inesistente

 

Ve lo ricordate Obelix, fido compagno dell’acuto Asterix, sempre bramoso delle gocce della pozione magica che il gallico druido Panoramix custodiva gelosamente per servirla solo in occasione di pericolo con l’esercito romano? Al povero Obelix era perfino interdetto avvicinarsi al contenitore in cui la pozione ribolliva: nella marmitta in cui veniva preparata ci era caduto da piccino, con effetti devastanti. Marmitta? È il tempo di occuparci di questo oggetto.

Con marmitta compiamo un viaggio nella lingua del tutto diverso da quello della compagna pignatta, più fantasioso se vogliamo. Negli atlanti linguistici marmitta è ben documentato e  presente come sinonimo di pignatta, ramina, paiolo, cazzeruola, vaso per lo strutto, zuppiera, vaso per la panna, caldaia, catino di terracotta. L’Atlante Linguistico Italiano (ALI, 1995) rileva marmitta nelle provincie di Torino, Varese, Trento e lungo la dorsale appenninica toccando le provincie di Lucca, Arezzo, Perugia fino a Campobasso. La parola è presente nell’inventario dei beni del duca Alfonso II d’Este (fine XVI secolo) qualificata come “marmitta todesca”, e compare solo nella quinta edizione del Vocabolario della Crusca (1811): “quel vaso di rame stagnato o di terra cotta fatto a maniera di pentola e che serve a cuocervi le vivande lesse”. Le definizioni che da allora ritroviamo in dizionari e vocabolari di lingua e dialettali non discostano molto da questa (spesso non ammettendo la variante in terracotta), come per esempio quella offerta dal Vocabolario del dialetto calabrese di Accattatis (1963): “ramina, ramino, bastardella: vaso di ferro o di rame stagnato internamente per cuocervi carne o altre vivande”. Da un punto di vista tecnico la marmitta dispone di una bocca e di un fondo di uguale diametro e parete bombata che si allarga nella parte mediana: tale bombatura permetteva di regolare la distanza dalla fonte di calore (carbone o legna) per aumentare e diminuire la temperatura all’interno (in epoca in cui non si disponeva di manopole sui fornelli) posizionandola su appositi sostegni (di solito cerchi). Inoltre la bombatura, insieme al coperchio, consentiva di far ricadere all’interno, senza disperdere, gli aromi che durante la bollitura delle vivande si producevano mantenendo più gusto alla pietanza. In questo modo l’utensile permetteva la cottura di grande quantità di alimenti. E se il gallo Obelix c’era caduto dentro, e ci voleva tornare, tanto piccola non doveva essere.

Di marmitte non ce ne è una sola. Con la Grande Guerra(1914-1918) marmitta consolidò il significato di obice (grosso proiettile d’artiglieria pesante che annunciava la sua traiettoria con notevole fragore). Anteriore è il termine tecnico di “marmitta dei giganti” per indicare una cavità più o meno circolare che può raggiungere diversi metri di diametro prodotta dall’erosione delle acque sulle coste rocciose e identificabile da lontano per il rumore delle acque rimestate all’interno. E vi è poi la recentissima marmitta, destinata ad assorbire il rumore “prodotto dalla fuoriuscita dei gas di scarico del motore a scoppio”. Il fragore confuso e indistinto è il tratto comune di tutte le marmitte.

Si tratta senza dubbio di un francesismo, attestato oltralpe già al 1313, e come tale recepito dallo spagnolo e dal portoghese. Nel Lessico dell’infima e corrotta Italianità (1890) l’avviso al navigante nel mare dell’autentica lingua italiana recita: “è voce gallica nata e sputata; ma fa tanto comodo per farci il lesso, la minestra, e l’altre vivande! O chi vi dice che dobbiate abolire la cosa? Se non vi torna a dirla pentola, pignatta o simili, ditela pure marmitta, e tutti pari!”. Il Prati (Vocabolario etimologico, 1951) e il Battisti-Alessio (Dizionario etimologico, 1950-1957) ne rilevano l’origine ma la definiscono di etimologia incerta. Il Dictionnaire étimologyque de la Langue française (Bloch-Wartburg, 1960) la riconduce alla sostantivazione dell’aggettivo marmite che sta originariamente, badate bene, per “ipocrita” (attestato verso il XII secolo) per il fatto che la marmitta, profonda e chiusa da coperchio, nasconde il suo contenuto ai bambini curiosi. Nel significato di recipiente per la cottura marmite scalzò e sostituì in modo consistente tutte le forme francesi derivate dal latino olla (pentola). A sua volta marmite deriva, per credibile ipotesi, dalla composizione di due voci, entrambe onomatopeiche. La prima è quella riconducibile alla radice dei verbi marmouser/marmonner (mormorare, parlare a voce bassa tra i denti) ascrivibile al fatto che molte lingue indoeuropee possiedono una famiglia di parole onomatopeiche che esprimono, con o senza duplicazione, il mormorio con la vocale “u” o “a”, (ad es. il latino murmurare, il tedesco murren);  la seconda è mite, voce onomatopeica per “gatta” (attestata in un romanzo del francese antico della fine del XII secolo, da cui anche il nostro “micio”). Il Viani nel suo Dizionario dei pretesi francesismi (1858) la deriva invece dalla composizione di mar (cucinare) e mit (alimenti) affidandosi a una ricerca non sufficientemente credibile, e però aggiunge “non chiamerò mai marmitte le pentole della mia cucina, ma chiamerò bene, senza scrupolo di barbareggiare, marmitte i vasi dove cuociono la carne e la minestra i soldati”. In sintesi “marmitta” in quanto utensile da cucina è destinato al lessico del campeggio militare, ma ha lasciato strascichi consistenti anche nella lingua di uso comune vista la sua diffusione su una fetta non indifferente dei dialetti italiani.

L’eredità militare è passata in parte al povero Marmittone, il soldato inadeguato e fanfarone che animò negli anni Trenta le strisce del Corriere dei Piccoli. Ma questa è un’altra storia.