Ho l’anima infortunata, mi zoppica nei fianchi. Il diario è il bastone. Nel diario io sono un bambino che cammina zoppicando, un bambino che si distrae con leggerezza o sprofonda inavvertitamente in un abisso di stupore, attonito di fronte al gesto morbido della sua stessa mano che, impugnata la penna, scrive. Scrive su un quaderno, col gesto antico – e filologico – dell’aratura. Ogni uomo è un campo, una geografia, una stratificazione geologica in lento movimento verso il disastro, verso il paradiso. Erba, steli, semi, spore, sassi, terra, vermi, minuscole gallerie e frane, larve, uova, insetti, spighe, fiori, impronte, tracce, segni… a casaccio? Forse la volontà ordinatrice è la vera morte, la preoccupazione della forma, la sintesi velenosa e disboscante di ciò che vuole a ogni costo chiamarsi arte. La vita ordinata nel rito. Eppure il diario è figlio del dialogo, è – scherzando un po’ – la continuazione del dialogo con altri mezzi. Il dialogo con chi? (con cosa?) e perché? perché oggi o ieri o poi basta o di nuovo o fino a? quando scriviamo – mentre scriviamo – non siamo mai soli, qualcuno incessantemente ci spia, ci legge da sopra la spalla. Parliamo con lui, con lei, con loro. A volte ho creduto di scrivere per la grande madre antica che sepolta nel cuore scatena tempeste e malinconie senza ritorno. O per gli “io” che sono e sono stato (io quella volta che, ma anche quando tu, e poi…) e poi non finisce, mai, perché il diario non esce dal tempo – mentre la poesia sì, perché la poesia è un tornare in un luogo che sta appena sopra il tempo, o sotto, comunque non prima e non dopo – il diario respira il tempo con bramosia, senza tempo non esisterebbe, franerebbe nel cosmo. Per trent’anni ho scritto su quaderni e taccuini qualcosa che forse si chiama diario (anarchico e evangelico, esorcismi di viaggio, sogni interi o sbranati dal mattino, ricordi di voci, idiozie, rumori…), per molto tempo abiti comodi e un quaderno in tasca sono stati la libertà – quasi la felicità – la santa povertà. E così un giorno (senza data) la compagnia del Teatro delle Ariette mi ha chiesto di tenere un diario per loro. “Teatro da mangiare?”, “L’estate.fine”, “Bestie, circo filosofico da cortile”… Volterra, Sant’Arcangelo, Calais, Valencia, il Paolo Pini di Milano nel diluvio universale, Roma, altri luoghi e altri diluvi, la neve all’improvviso sulla Manica, impigliata agli arbusti della “jungle”, arche e tavole di legno, zattere di senso, clandestini, spie, naufragi… e io che scrivo, in disparte prima – finalmente io alle spalle di chi guarda – poi accanto – al banco di scuola “riservato Sissa”, in mezzo agli spettatori – e infine davanti, in scena, spettacolo del poeta che guarda essendo guardato, del poeta che scrive mentre gli sguardi interroganti degli spettatori lo scrivono e lo descrivono, lo raccontano mentre lui racconta loro, scrivendo su un quaderno comperato a Siviglia. Ognuno con la sua manciata di io sparsi, in dialogo malgré soi, mentendo senza vergogna, mentendo per innocenza, per paura, per orrore, per amore. Perché non ci si può illudere che il diario sia più sincero di noi – onesto, forse, comunque rivelatore nei suoi lapsus, con le sue omissioni, i suoi camuffamenti, il belletto steso sul volto in modo così maldestro, ma non sincero – perché l’altro nome del diario è “la sincerità impossibile”, almeno da Baudelaire in poi, da Edgar Poe in poi, fino ai quaderni assoluti di Kafka, fino al grande infingimento del “Libro dell’inquietudine” pessoano, fino al colpo di pistola di Cesare Pavese, fino al colpo di poesia in un campo di granturco in Romagna, in un crepuscolo che bestemmia la prossimità del mare e l’impossibilità delle cose che si scambiano baci d’addio nel fruscio del vento e chi scrive si accorge che il diario gli ha buttato nel cuore, come a un bambino solitario e perfetto, un congedo meno bugiardo:

 

Così questo è il campo – dove viene da tacere finalmente un poco e poi per sempre – qui senza voce siamo attesi con il sorriso dei non arresi – qui la pianta del pomodoro stranamente torna al suo folle niente in un silenzio di vento – né triste né contento – che voi non sentite che vi spartite l’incredula durezza dello sgomento nella scaramanzia della sconfitta vittoriosa – o gli occhi della morte senza sguardo o la carezza della sposa che non riposa e la vita tutta sempre e ancora un poco ai margini di ciò che resta d’altro fuoco – ma così ancora e sempre questo è il campo – questa la sua buia geografia umana tanto da sembrare la tua la sua la mia – ma per niente strana e senza malinconia verso il fondo della campagna e nell’abisso orizzontale della pianura – senza fatica quasi o nascondigli di paura – e quanto camminare e sostare e sperare e aspettare… sempre con il sasso del sapere in mano – e qui tornare per scavare fonda più fonda un’altra fossa… nel tempo umano allo schioccare di una bandiera rossa!

 

Perché il campo è stato seminato di tempo e questo diario e bambino lo sanno bene.