Quando avevo sette anni pensavo che le idee vivessero nei sussidiari. Erano creature incorporee, finché non si stendevano su pagine di carta lucida e colorata e lì prendevano vita. Erano le idee-creatura di tanta gente che con tutta probabilità non avrei mai conosciuto, ma che era evidente ne sapesse molto più di me su cosa bisognava infilarci, dentro la testa. Non avevo ancora ben chiara la distinzione tra le idee e i pensieri e forse non ce l’ho neanche adesso. Le idee e i pensieri per me erano la stessa cosa e non aveva molta importanza se servissero a qualcosa di concreto o solo a passare il tempo: erano guizzi, pennellate di colore su un foglio bianco, erano soprattutto movimenti della vita interni che si protendevano verso l’esterno e viceversa.

Che le idee potessero essere scritte e conservate, anche le proprie, mi è venuto in mente dopo un po’. Ho cominciato con piccoli diari chiusi da un minuscolo lucchetto di ferro del quale perdevo regolarmente la chiave e che doveva quindi essere divelto per liberare le pagine e i pensieri che c’erano annotati sopra.

Presto, la via intermedia del diario si è trasformata in altro. Non sono mai stata una diarista convinta e fedele: mi è sempre parso che il racconto delle vite, anche della propria, passasse, più che attraverso una registrazione di fatti quotidiani e stati d’animo relativi a quei fatti, per degli improvvisi squarci di pensiero. Piccole frasi. Immagini. Il suono di due parole accostate. Liste. In effetti, tutte le storie dei romanzi che ho scritto sono nate così, come illuminazioni improvvise che molto spesso, anzi quasi sempre, partivano da un’immagine che mi si piantava in testa e non ne usciva più, anzi si conficcava nel terreno fertile del cervello sempre più a fondo. Spine che non volevano saperne di uscire e intorno alle quali le cellule facevano resistenza e generavano tessuto per cercare di isolarle, visto che l’organismo non riusciva a espellerle. Quel tessuto era fatto – è fatto – di stratificazioni, anzi, di concrezioni, proprio come quelle che si possono trovare capovolgendo lo scafo di una barca rimasta in acqua molto a lungo: sulla carena si troveranno balani, detti anche dente di cane, ciuffi di vegetazione e madrepore di vario tipo. Organismi che hanno attecchito e poi proliferato su quella superficie dura, semplice e liscia che era all’inizio la carena vergine. Adesso, la nostra barca rivoltata è una dura trapunta di storie da decifrare. Un volume miniato sul quale molte mani (e molti piedi) hanno lasciato le loro impronte e depositato testimonianze. Questi quaderni e taccuini che mi hanno inseguita in giro per il mondo, in ognuna delle case temporanee in cui ho abitato, in ogni automobile, nave, aereo, treno, autobus che ho preso, seminando fotografie e articoli di giornale ritagliati, accompagnano da sempre la stesura di ogni mio romanzo o racconto. Dentro questi taccuini finisce di tutto, in un collage che comprende disegni, scarabocchi, scontrini del bar, biglietti del treno, foglie e fiori essiccati, trascrizioni di sogni notturni, fotografie, liste (tantissime liste: liste di verbi, aggettivi, nomi propri, definizioni botaniche, toponomastica), interi brani di scrittura buttati giù a penna e già definitivi, parole singole, versi di poesie o canzoni, titoli di libri e film che mi interessano, mi colpiscono oppure che devo assolutamente leggere o vedere perché hanno a che fare con il tema intorno al quale sto lavorando.

Strada Provinciale Tre (Einaudi Stile libero)

Qualche anno fa, per una coppia di registi che stava lavorando alla sceneggiatura di un film che poi non si è concretizzato, ho fatto un lavoro di trascrittura del quaderno che aveva accompagnato la stesura del mio romanzo Strada Provinciale Tre. A rileggerlo ora, a distanza di tempo, mi pare che dica moltissimo del modo in cui lavoro, anche se io, mentre li minio, questi quaderni, non ho assolutamente idea che anche lì, in quel frastuono di voci, rumori e immagini appuntate in fretta e furia, ci sia un disegno che piano piano prende forma. Una specie di scheletro sul quale il tempo, la fatica e l’ostinazione – che sono gli strumenti essenziali del mestiere di scrittore – si adopereranno a rivestire di tendini, muscoli e carne.

Sempre più spesso però, mano a mano che gli anni passano, io invecchio e la vita quotidiana incalza con le sue pretese, mi rendo conto che aveva ragione Rilke quando nei Quaderni di Malte Laurids Brigge scriveva queste parole:

 

Oh, ma con i versi si fa ben poco, quando li si scrive troppo presto. Bisognerebbe aspettare e raccogliere senso e dolcezza per tutta una vita e meglio una lunga vita, e poi, proprio alla fine, forse si riuscirebbe poi a scrivere dieci righe che fossero buone. Poiché i versi non sono, come crede la gente, sentimenti (che si hanno già presto), sono esperienze. Per un solo verso si devono vedere molte città, uomini e cose, si devono conoscere gli animali, si deve sentire come gli uccelli volano, e sapere i gesti con cui i fiori si schiudono al mattino. […] Si devono avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra, di grida di partorienti, e di lievi, bianche puerpere addormentate che si richiudono. Ma anche presso i moribondi si deve essere stati, si deve essere rimasti presso i morti nella camera con la finestra aperta e i rumori che giungono a folate. E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare, quando sono molti, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino. Poiché i ricordi di per se stessi ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso.


Gli appunti ancora non sono, così come i ricordi ancora non sono: devono trasformarsi in “sangue, sguardo e gesto“, diventare NOI. Vale per la poesia, per la prosa, per la saggistica e anche solo per le riflessioni intorno alla vita che facciamo più o meno tutti, anche quelli che non scrivono. Ho imparato a fidarmi, perché ormai so che gli appunti davvero importanti non si perdono neanche quando si crede di averli perduti; si incidono dentro a nostra insaputa e quando servirà torneranno fuori, quasi li avessimo trascritti all’interno della nostra testa e del nostro corpo. Detto questo, è difficile che io vada in giro senza una quaderno e la mia minuscola macchina fotografica digitale, anche se quasi sempre dimentico la penna.