I vichinghi alla conquista del mercato globale
Sui víkingar, i vichinghi, tutti bene o male si sono fatti un’idea. C’è chi li immagina con elmetto, corna e barba folta, chi li confonde con Obelix (che invece era un gallo), chi li considera esponenti di una civiltà grezza e barbara, chi attinge alla loro cultura per comporre i testi della musica heavy metal. Per Jorge Luis Borges parlavano il “latino del Nord”, per i celti delle Isole Britanniche erano i gennti, i gentili, ovvero i pagani incolti che nel Medioevo razziavano monasteri e davano fuoco alle biblioteche; per le popolazioni scandinave sono gli intrepidi navigatori che si sono spinti fino alle coste dell’America del Nord e, come diceva Oscar Wilde, hanno avuto il buonsenso di non dirlo a nessuno. L’etimo non è chiaro: secondo una delle ipotesi sono coloro che “andavano di baia in baia” (vík ‘baia’, + –ing suffisso iterativo).
Nella coscienza degli islandesi, contadini e stanziali dall’epoca dell’insediamento, il termine “vichingo” si è sempre identificato ben poco con lo spirito della nazione, ma il termine ha acquisito nuova linfa di recente, perché è stato utilizzato per definire una tipologia ben più moderna che ha fatto la sua comparsa nella cultura islandese una decina di anni fa: l’útrásarvíkingur.
È il magnate della finanza che ha conquistato i mercati stranieri con i suoi investimenti, il re dell’economia nazionale che si è costruito una fortuna senza precedenti e ha globalizzato le aziende islandesi dando visibilità a questa piccola isola artica. La connotazione ha assunto poi un’accezione negativa con la crisi del 2008, perché proprio agli útrásarvíkingar e alla loro gestione sconsiderata del denaro si imputa il crollo economico che ha messo in ginocchio l’Islanda.
Il termine si costruisce con il sostantivo útrás, modellato su innrás, calco di in-cursio, “incursione”, che descrive un’irruzione militare o forzata; útrás definisce quindi un processo opposto, proiettato verso l’esterno. Útrás al genitivo si lega al sostantivo víkingur dando, letteralmente, un “vichingo dell’espansione”. La traduzione più utilizzata dagli analisti finanziari inglesi è corporate raider o outvasion viking.
Pur avendo incontrato spesso il termine nel dialogo successivo al crollo economico, non avevo mai avuto bisogno di preoccuparmi di come tradurlo, fino all’ultimo giallo di Arnaldur Indriðason, Cielo nero (Guanda), che racconta il momento d’oro degli útrásarvíkingar pochi mesi prima della crisi. Per la maggioranza dei lettori italiani si tratta di una realtà probabilmente sconosciuta, che dovevo far comprendere in qualche modo senza dilungarmi a spiegarne la genesi. Un vero grattacapo, per cui nella mia traduzione mi sono accontentata di trasformare gli útrásarvíkingar in “investitori vichinghi”, nell’intento di mantenere la continuità con l’intrepido medievale e lasciare trapelare una rete di rimandi storici, economici e sociali che forse non saranno affatto percepiti. La soluzione lascia insoddisfatti, ma mi costringo a considerarla la posa del primo mattone per la futura costruzione di un concetto nuovo.
Molti útrásarvíkingar sono attualmente sotto processo, in Islanda, per frodi fiscali e finanziarie. Magari, chissà, nel giro di pochi anni di loro non si sentirà più parlare, e non avrò nemmeno bisogno di preoccuparmene: nel Medioevo i vichinghi solcavano i mari per ottenere fama e ricchezze, ma dubito che sia per la fama degli “investitori vichinghi” che l’Islanda vorrà essere ricordata.
©Silvia Cosimini