Il-sogno-del-villaggio-dei-dingTra le numerose sfide che la lingua cinese pone ai traduttori ce n’è una dal sapore tutto particolare per la sua poetica singolarità: si tratta della traduzione dei chengyu, espressioni idiomatiche fisse di derivazione classica – generalmente di soli quattro caratteri – che illustrano in modo sintetico ma suggestivo un gran numero di concetti, arricchendo ancor oggi sia il testo scritto che la lingua parlata. Non sono esattamente proverbi, ma piuttosto dotti modi di dire che il più delle volte derivano da testi antichi o da aneddoti classici; i proverbi, invece, che pure abbondano in cinese, sono assai meno strutturati e meno formali dei chengyu, possono avere lunghezza variabile e provengono dalla tradizione orale popolare. Il riferimento letterario che li caratterizza fa sì che molti chengyu risultino totalmente incomprensibili se non si conosce la fonte da cui hanno origine o l’aneddoto di cui sono il distillato: in questi casi la cosa migliore è fornire in nota una breve spiegazione del contesto che fa da sfondo all’espressione; di altri, invece, si riesce ad afferrare il senso senza bisogno di commenti da parte del traduttore, e allora perché appesantire il testo e interrompere il flusso della narrazione con inutili intromissioni?

Nell’ultimo romanzo che ho tradotto, il bellissimo Il sogno del Villaggio dei Ding dello scrittore contemporaneo Yan Lianke, è presente un discreto numero di chengyu, ma nessuno che necessiti di particolari delucidazioni: semmai, alcuni richiedono al traduttore uno sforzo in più di riscrittura creativa. Ce n’è uno la cui possibile resa in italiano mi si è affacciata alla mente con estrema immediatezza, sebbene si tratti di un’espressione molto lontana dai modi di dire dell’italiano e sebbene, lo riconosco, molto sia andato perduto della sua nobile e antica aura letteraria. Si tratta di yirufanzhang, letteralmente “facile come voltare il palmo della mano”, antichissimo chengyu che compare per la prima volta addirittura nel Mencio, il classico confuciano risalente al IV secolo a.C. In un dialogo con il proprio discepolo Gongsun Chou, il filosofo dice: “Elevare lo stato di Qi a dignità reale potrebbe essere facile come girare il palmo della mano all’insù”. L’espressione ha attraversato tanti secoli ed è rimasta nel cinese moderno a indicare qualcosa di estremamente facile da realizzare. Nel romanzo di Yan Lianke la si trova nel bel mezzo di una storiella narrata dal buffone del villaggio, il contadino Ding Zuizui – non certo una persona istruita, ma uno che sa come colorire le proprie barzellette con riferimenti colti e al tempo stesso familiari, quali sono appunto i chengyu – che racconta: “C’era una volta un tipo molto intelligente […], così intelligente che riusciva a risolvere qualsiasi problema come girando il palmo della mano all’insù” (il chengyu è, come spesso accade, in posizione avverbiale). Come tradurlo? Lasciarlo così com’era in cinese sarebbe suonato alquanto bizzarro nella nostra lingua: un futile esotismo, per quanto comprensibile nel suo significato essenziale. E allora, mi sembrò, forse era meglio optare per una traduzione agile e non troppo ricercata, schietta ma non senza una punta di originalità, con buona pace di Mencio e di tutta la schiera degli eruditi confuciani. Così è venuto fuori “… riusciva a risolvere qualsiasi problema con la facilità con cui si beve un bicchier d’acqua”. La soluzione è venuta subito da sé, senza troppe elucubrazioni, e non l’ho più cambiata, anche quando mi sono venuti in mente modi di dire più tradizionali come “un gioco da ragazzi”, “una passeggiata”, “affondare il coltello nel burro” e altri ancora. Forse mi è parso che nessuno di questi comunicasse la facilità del fare qualcosa con l’efficacia che traspare, per esempio, dagli idiomi inglesi “as easy as pie” o “as easy as falling off a log”; forse mi aveva colpito la freschezza dell’acqua e di questa espressione che suona più moderna, più quotidiana di tutte le altre prese in considerazione. E poi il bicchier d’acqua trasmette da sempre un’idea di cosa piccola, di poco conto: basti pensare alle espressioni “tempesta in un bicchier d’acqua” e “annegare in un bicchier d’acqua”. Certo, in questo come in tanti altri casi la distanza dall’originale cinese è notevole, ma chi traduce da questa lingua sa bene di essere spesso costretto a riscrivere, per quanto si sforzi di rimanere fedele alle intenzioni dell’autore. E d’altro canto il lettore occidentale, davanti alla versione di un’opera cinese, sa bene di non potersi fidare troppo del traduttore, che qualche volta non gliela racconta giusta.

© Lucia Regola