Quando un alfabeto non basta
Una delle difficoltà inerenti alla traduzione dal giapponese − oltre al dover rendere comprensibili usanze di vita quotidiana e abitudini mentali sconosciute a molti lettori − consiste nella complessità della scrittura di questa lingua. Sì, perché in giapponese di alfabeti ce ne sono ben tre: i kanji, gli hiragana e i katakana. Detto in maniera molto schematica, i primi − qualche migliaio − sono ideogrammi di origine cinese, cioè simboli grafici che rappresentano una cosa o un concetto. I secondi invece sono 46 caratteri che corrispondono ad altrettante sillabe e formano la desinenza variabile delle parole. Quanto ai katakana − sempre 46 − sono segni graficamente simili agli hiragana e foneticamente identici.
Ma perché mai − si chiederà qualcuno − creare un terzo alfabeto con le stesse caratteristiche del secondo?
Ebbene, al solo fine di scrivere i vocaboli importati da altre lingue! Ogni nome di persona, luogo, cibo, strumento o evento appartenente a un idioma straniero, viene trascritto con questi caratteri; quando in un testo, scorrendo le righe, si incontrano i katakana, si sa già che in quel passaggio viene nominato qualcosa di estraneo alla cultura tradizionale giapponese, che si tratti di un piatto di spaghetti, di un musicista tedesco o di una città americana. Sembra quasi una messa in guardia: attento, lettore, qui si sconfina in territorio ignoto.
Gradualmente, nella narrativa giapponese contemporanea, l’uso dei kanji, spesso sostituiti dagli hiragana di ben più facile lettura, è andato diminuendo. I katakana invece vanno conquistando terreno, perché nei romanzi odierni i riferimenti alla cultura occidentale − musica, cucina, moda − sono sempre più frequenti: in certe pagine di Murakami Haruki l’alfabeto riservato ai termini stranieri prevale addirittura sugli altri due. Come se non bastasse, succede che in un testo i katakana compaiano, per così dire, a tradimento, vengano cioè usati per scrivere una parola giapponese! È quel che mi è capitato con l’incipit del romanzo di Kawakami Hiromi, La cartella del professore. Che faceva così:
“Ufficialmente, è Matsumoto Harutsuna sensei Ma io lo chiamo sensei . Non sensei Non sensei . Sensei in katakana”.
La prima volta sensei era scritto in kanji, la seconda in katakana, la terza in hiragana, e la quarta di nuovo in katakana.
Cosa mai voleva dire?
La parola sensei significa “professore”, “insegnante”, “maestro”. È un termine carico di rispetto, di deferenza, lo si usa per indicare una persona dotata di autorevolezza. E lo si scrive in ideogrammi. Che senso poteva avere scritto in katakana? Acquisiva forse un valore diverso?
Provo a consultare la versione francese del libro: sensei è reso con la parola maître, “maestro”, che non mi serve perché in italiano designa un insegnante della scuola elementare, mentre il suddetto Matsumoto è professore di liceo; e scrivere “Maestro” con la M maiuscola sarebbe del tutto inadaguato alla situazione. Quasi meglio lasciare, nella versione italiana, il termine giapponese sensei in alfabeto latino, scelta per cui ha optato, mi dicono, il mio collega tedesco nella sua traduzione. Ma non mi soddisfa. Perché il bello del mio mestiere consiste proprio nel trovare, a forza di tentativi e ricerche, “la parola giusta”.
Mi viene in mente a quel punto che un mio amico giapponese, rivolgendosi alla moglie, la chiama sempre Mayumi sensei. Benché lei non sia insegnante, e tanto meno oggetto di deferenza da parte del marito.
Che la soluzione del problema si trovi nel “lessico familiare” di questa coppia?
Visto che i miei amici abitano attualmente a Milano, decido di consultare Mayumi e le telefono.
“Perché mio marito mi chiama sensei?” risponde lei ridendo quando le chiedo il significato di quell’appellativo. “Ma per prendermi in giro. In modo affettuoso, spero”. L’uso improprio del katakana – mi spiega poi – può essere scherzoso, canzonatorio. “Nel caso del tuo professor Matsumoto, è quasi irriverente.”
Un termine tra il canzonatorio e l’irriverente, forse anche un po’ affettuoso, per rivolgersi a un insegnante?
Prof!
Eccola la parola che cercavo!
Dopo prove e riprove, l’incipit del romanzo La cartella del professore, nella mia traduzione, alla fine suonerà in questo modo:
Ufficialmente, sarebbe il “professor Matsumoto Harutsuna”, ma io lo chiamo “prof”. Né signor professore, né professore, solo così: prof.
E “prof” resterà per tutto il libro.
©Antonietta Pastore