Tradurre la lingua nel tempo
L’italiano di cinque, sei o sette secoli fa è abbastanza prossimo a una lingua straniera anche per un madrelingua. Non solo le parole hanno un altro significato sul piano lessicale – basti pensare al celebre incipit del sonetto dantesco Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand’ella altrui saluta… che tradotto in italiano moderno da Gianfranco Contini suona: Tale è l’evidenza della nobiltà e del decoro di colei ch’è mia signora, nel suo salutare…1 – ma diverso è l’ambiente e il contesto, così come gli oggetti e le abitudini della vita quotidiana: insomma, l’intera cultura di riferimento è altra.
“Tradurre” dice Contini “non significa infatti altro se non determinare il nuovo rapporto dei sinonimi e affini nella cultura rappresentata dalla nostra lingua, la nuova ripartizione, per dir così, in parole della realtà che si considera come oggettiva e costante”.2
Partecipando alla recentissima operazione di trascrizione di novelle del Quattrocento e del Cinquecento italiano a cura di Elisabetta Menetti (Novelle stralunate dopo Boccaccio. Riscritte nell’italiano di oggi, Quodlibet 2012) sono incappata in un altro scoglio che spesso affiora quando ci si trova a tradurre da altri mondi e da altre culture: il linguaggio metaforico. La metafora, si sa, è un’immagine che rimanda a qualcos’altro (già in sé traduzione: una cosa sta per un’altra), e affinché la metafora funzioni è necessario che questo qualcos’altro sia immediatamente riconoscibile da chi legge e faccia parte di un’enciclopedia comune, ossia di una cultura e di un contesto condivisi.
La novella di Giovanni Sercambi che mi è stata affidata da trascrivere, ossia tradurre, nell’italiano di oggi, narra di una badessa piuttosto ingegnosa che “volendo preservare la virtù, malgrado la gran voglia di sollazzarsi, escogitò un bel modo, e assai onesto, di saziare in parte il suo appetito”. La badessa confeziona quindi un “pastorale d’uomo” di buona forma, rivestito di seta e imbottito di grano di miglio: “ogni volta che si voleva cavare la voglia, la badessa faceva cingere il santo pastorale a una delle monache e, dopo essersi fatta montare sopra, con quello appagava il suo desiderio”.
Il bastone pastorale come insegna liturgica, per rovesciamento comico-grottesco, diventa l’organo genitale maschile. Il pastorale d’uomo è quindi un perfetto rovesciamento dello spirito nella carne o del sacro nel profano: dal bastone del pastore di anime al “manico” del pastore dei sensi. Insomma quella di Sercambi rappresenta una delle prime attestazioni nella nostra letteratura – per lo meno nel filone della “letteratura carnalista” individuato da Guido Almansi – di quello che verrà chiamato, in altri tempi e con altre tecnologie, dildo (in spagnolo: el consolador – terminologia quanto mai appropriata in questo caso).
E fin qui, nessun problema di comprensione dal Quattrocento ai giorni nostri. Proseguendo nella narrazione, però, Sercambi descrive i sollazzi notturni della badessa con una monaca (in realtà sotto mentite spoglie) così impastoiata, tanto che prima dell’alba “due volte la badessa gittò la piumata”.
Che cosa mai significa “gittare la piumata”? È chiaramente una metafora ma di che cosa? E a quale ambito appartiene il linguaggio metaforico?
Consultando il Vocabolario della Crusca (III e IV ediz.) scopro che la “piumata” è una “pallottola di piuma, che si mette nel gozzo agli uccelli, come a falconi, sparvieri, e simili, per purgargli”. Trattasi dunque di linguaggio relativo all’ambito della falconeria. Spulciando tra i cataloghi delle biblioteche trovo un bellissimo trattato di falconeria, testo antico toscano del secolo XIV, che conferma contesto e usanza: “dicesi piumata quella gallozzola di piuma che si mette nel gozzo agli uccelli di rapina per purgarli: onde dar loro la piumata vale dar loro si fatta purga”.3
Nel De arte venandi cum avibus di Federico II di Svevia, la piumata (plumata) è il bolo che questi uccelli vomitano, fatto delle piume e delle parti indigeste di ciò che mangiano; anche oggi – mi dicono – se si va in un bosco si può scoprire dove hanno il nido questi uccelli perché per terra ci sono i boli che contengono unghie piume ecc. che hanno naturalmente vomitato.
Infine, dato che spesso il traduttore si affida ai dizionari come a giubbotti salvagente, trovo la conferma definitiva sfogliando il Boggione-Casalegno (Dizionario letterario del lessico amoroso: metafore, eufemismi, trivialismi). Alla voce Piumata leggo: “la piumata era propriamente la pallottola di piume che si faceva inghiottire ai rapaci da caccia a scopo purgativo. L’uso metaforico per indicare il rapporto sessuale allude all’eiaculazione: per tale motivo a ricevere la piumata è sempre la donna”. E “gettare la piumata” significa raggiungere l’orgasmo.
Risolto l’enigma del significato metaforico, restava da affrontare la vera questione per chi traduce: come trasmettere quell’immagine (di immediata comprensione per quei tempi) in modo da renderla comprensibile nel passaggio dalla cultura tardomedievale alla cultura moderna? Occorreva rendere l’idea di qualcosa che entra ingorgando e viene rigettata fuori quando l’operazione finisce.
Tornando alla scena della badessa e dell’effetto che su di lei ha l’azione del pastorale, per mantenere il rovesciamento del sacro nel profano, e restando fedele allo spirito – e alla carne – del testo di Sercambi, la mia soluzione è stata: “e due volte la badessa si fece sgorgare”.
1 Gianfranco Contini, “Esercizio d’interpretazione sopra un sonetto di Dante”, in Varianti e altra linguistica (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970, p. 166.
2 Ibid., p. 162.
3 Libro delle nature degli uccelli fatto per lo re Danchi, testo antico toscano messo in luce da Francesco Zambrini, Bologna, facs. Romagnoli, 1874. p. 68.
© Simona Mambrini