Usi, non-usi e implicazioni delle parole di guerra
Embedded
Le parole nascono, evolvono, compaiono e scompaiono. In qualche caso seguono le mode e le necessità stilistiche ed espressive, in qualche altro si piegano alle contingenze. Così pure evolvono i loro usi e contesti, le loro implicazioni e quello che anche il loro repentino non-uso sottolinea. Ciò è tanto più vero allorché nel secondo millennio ci troviamo alle prese con guerre che scopriamo essere diverse da quelle studiate sui libri o rievocate dai nostri genitori o nonni. La guerra contemporanea è “asimmetrica”, è “virtuale”, è “tecnologica”. In caso di testi da tradurre che parlino di guerra ci si scopre impreparati, si ha poca familiarità con le terminologie specifiche delle armi utilizzate, con i neologismi e gli acronimi che paiono moltiplicarsi dalla sera alla mattina. Diventa più che mai indispensabile studiare, leggere, preparare glossari; calarsi nelle dinamiche geopolitiche, apprendere i gradi militari, le armi convenzionali, quelle di ultima generazione; seguire l’evolversi di guerre settarie e lontane, tener traccia di faide interne tra neocon alla Casa Bianca e tra fazioni dei Signori della Guerra, farsi una cultura “bellica” e perfino “terroristica”, acquisire conoscenze su altre culture e altre religioni.
Molto particolare, a mio avviso, è l’iter che ha vissuto un termine nel quale mi sono imbattuta di frequente nelle mie traduzioni per i quotidiani a partire dall’inizio della guerra in Iraq. Mi riferisco a embedded, accreditato in lingua inglese. Ma più che il suo uso, mi sembra quanto mai significativo esporre qui ciò che attesta il suo brusco non-uso, che segnala un’evoluzione radicale nel giornalismo di guerra.
È ormai risaputo che i giornalisti embedded erano al seguito di un contingente militare in una missione pericolosa all’estero, nel corso della quale avrebbero tratto vantaggi e protezione, pur perdendo inevitabilmente alcuni dei grandi pregi e assi nella manica propri ai reporter di guerra: in primis, l’autonomia di azione e di giudizio.
Con il termine embedded – che parrebbe evocare qualcosa di “rassicurante” come il letto (bed), ma che in realtà ha il significato molto più tangibile e perfino autoritario di “incassare”, “introdurre”, “inserire” – anche il giornalismo cambiò. Si fece più ossequioso e meno indipendente, più strutturato e meno ispirato. Ai lettori si spiegò che per il fatto di essere embedded, i reporter in prima linea sarebbero stati esposti a un numero minore di rischi (rapimenti, rappresaglie, ricatti), ma avrebbero riferito con minore oggettività e libertà ciò che come inviati di guerra avrebbero voluto e potuto farci sapere. Noi traduttori ci adeguammo all’uso di questo termine lasciato per comodità in inglese (anche se nelle mie traduzioni ho utilizzato spesso l’indispensabile circonlocuzione che ne spiega il significato) e i lettori si abituarono a trovarla in ogni cronaca o reportage dall’Iraq, dall’Afghanistan e altri scenari di guerra.
Ecco però, dopo neanche dieci anni, che questo termine indica altro. Per meglio dire, anzi, è il suo improvviso “non-uso” – con implicazioni ancora diverse, in questo caso tragiche – a indicare qualcosa. Venendo a tempi a noi più vicini, infatti, siamo entrati in un’epoca completamente diversa, che a detta degli esperti si potrebbe configurare come “post-embedded era”. Non si sente più parlare di embedded, ci avete fatto caso? Nei teatri di guerra, nei paesi dove ci sono contingenti di pace a fare da cuscinetto, nelle zone “calde” del pianeta dove si recano gli inviati, i corrispondenti non sono più al seguito o “inseriti” in un contingente e non dispongono più di protezione. A dir tanto hanno un autista e un interprete, di rado una scorta. Dunque, ora che i reporter e i fotoreporter di guerra sono tornati al loro consueto, nobile e rischioso mestiere, ora che noi traduttori non dobbiamo più usare circonlocuzioni e la parola embedded, il diritto-dovere di cronaca è tornato a esigere il suo pesante scotto: molti sono stati feriti, rapiti, assassinati. Ciò che mi preme sottolineare, nella mia pratica di traduttrice per la stampa, è che la frequenza con la quale ricorre oggi la parola embedded è inversamente e drammaticamente proporzionale al numero delle vittime tra gli inviati di guerra che oggi perdono la vita impegnati nella loro professione in “conflitti asimmetrici” (altra definizione – quasi un eufemismo – per indicare che a fronte di tutta l’avanzata tecnologia occidentale, il “nemico” spesso colpisce con un semplice ordigno improvvisato realizzato con lattine ripiene di biglie, chiodi, fertilizzanti e poco più, nascosto sul ciglio di una strada di passaggio), su fronti lontani e in paesi remoti. Soltanto nei primi otto mesi del 2012, hanno perso la vita 89 reporter nei teatri di guerra più sanguinosi (Siria, Pakistan, Afghanistan, Iraq, Somalia) e nei paesi dove la legalità è a tutti gli effetti latitante (Brasile, Messico, Russia, vari paesi africani). Siamo in presenza, quindi, di qualcosa su cui riflettere: il non-uso a distanza di poco meno di dieci anni di una parola entrata in modo dirompente nel linguaggio comune denota un risvolto tragico di cui si prende compiutamente atto soltanto e proprio in funzione dell’uso intenso e spesso indiscriminato che si è fatto di questa parola nel decennio precedente.
Accountable
Col passare del tempo e il susseguirsi di importanti avvenimenti geopolitici, avvicendamenti al potere e prese di posizione di un’opinione pubblica che è parsa risvegliarsi da un torpore di decenni e forse anche secoli, ha assunto invece un significato molto più pregnante il termine inglese accountable. Il significato di “responsabile” e “spiegabile” o ancora “giustificabile” (così sulla maggior parte dei dizionari) non rende pienamente il concetto – soprattutto da un’ottica democratica – di ciò che un regime o un governante è tenuto a fare: “rispondere del proprio operato nei confronti dei suoi sudditi/concittadini”. È questa la locuzione che è indispensabile utilizzare da quando è sbocciata la Primavera araba e ha iniziato a soffiare quel prorompente vento filodemocratico che, dopo essere stato soffocato per anni e più spesso decenni, ha travolto i paesi del Nordafrica, cambiando una volta per tutte regimi, dinastie, dittature, rapporti di forza e di potere. Dalla primavera di due anni fa, infatti, per essere accountable, a un governante/regime/regnante non basta più dar prova di senso di responsabilità (in questo caso attiva), ma rendere conto di tutto il proprio operato, pagando di persona in caso di errore o omissione, come già era avvenuto nei conflitti nei Balcani. Oggi dunque essere accountable significa prima di tutto tener conto delle istanze democratiche, del desiderio di autonomia e autogestione dei popoli e di conseguenza essere tenuti a rispondere delle proprie azioni, scelte e decisioni prese a nome e (teoricamente) a beneficio del proprio popolo anche davanti al tribunale penale internazionale dell’Aja. Da “responsabili” in senso attivo, se si è accountable si è arrivati dunque a essere “passibili di giudizio”.
Compound
Altro anglicismo che con le guerre è approdato sulle prime pagine di giornali e quotidiani è “compound”. Il traducente esatto di questo termine inglese esiste ed è “complesso sorvegliato di edifici”, oppure più sinteticamente “area recintata”. Nondimeno, quando deflagrò in tutto il mondo la notizia della cattura di Osama bin Laden, si scrisse e si disse che l’uomo più ricercato al mondo, il pericolo numero uno per l’Occidente era stato “catturato nel compound nel quale si nascondeva da tempo nel corso di un blitz messo a punto nei minimi dettagli”. E da allora è invalso nel giornalismo l’uso di compound. Se ne parla in ogni occasione. Perché mai ricorrere alla contaminazione linguistica quando “area recintata o sorvegliata” si presterebbe all’uopo? Perché, come accade molto spesso, il termine inglese è sintetico e pare comunicare anche più di quello che implica in realtà.
È per questa stessa sintetica comodità che oggi ci sentiamo autorizzati a usare sempre più spesso – malgrado il vivo desiderio di un uso puro della lingua italiana – altri anglicismi e ricorriamo a parole che contaminano l’italiano, per esempio austerity invece di “austerità” e bailout invece di “salvataggio in extremis” tutte le volte che parliamo di un altro conflitto tuttora in corso: una guerra contemporanea ancora diversa, invisibile nel suo progredire ma non nelle sue conseguenze e di certo non meno cruenta, che si sta combattendo con armi ancora diverse sul fronte economico e finanziario.
© Anna Bissanti