E tra i mondi, come un grigio velo,

erra il fumo d’ogni focolare.

La Via Lattea s’esala nel cielo,

per la tremola serenità.

L’imbrunire, G. Pascoli

 

 

Eccoci di fronte a un’altra espressione figurata. Di certo nessuno ha mai visto, acquistato o peggio bevuto questo misterioso latte che esiste solo nell’espressione: far venire il latte alle ginocchia per indicare qualcuno o qualcosa che annoia, secca oltremisura (Zingarelli 2013) o sentirsi venire il latte alle ginocchia per designare un senso di fastidio, di stanchezza, di impotenza (Grande Dizionario della Lingua Italiana).

Derivato dal latino lacte(m), neutro, latte indica quello che tutti ben conosciamo: un liquido bianco e dolce, secreto dalle ghiandole mammarie dei Mammiferi subito dopo il parto destinato all’alimentazione della prole dei mammiferi nei primi mesi di vita. Impiegato inoltre come sostanza alimentare, in quanto pastorizzato o crudo, a lunga conservazione o fresco o meglio ancora di alta qualità, microfiltrato, intero o scremato, centrifugato, liofilizzato, evaporato, condensato, concentrato, in polvere o secco, inscatolato o in bottiglia, il latte costituisce il primo nutrimento e di conseguenza il nutrimento in assoluto. Solo l’affacciarsi delle intolleranze alimentari sta minando questo suo significato universale.

In virtù della sua funzione vitale, il latte ha generato tutta una serie di locuzioni figurate legate al mondo dell’infanzia e dell’ingenuità (sapere o essere di latte), alla sfera della purezza e bellezza (essere latte e rose), alla crescita e quindi all’apprendimento e conoscenza (tenere latte da qualcuno per essere stato istruito da qualcuno). Col termine “latte” vengono pure denominati per associazione tutti quei prodotti, originari o lavorati, che ne assumono l’aspetto: latte di mandorla, latte di riso, latte detergente, etc.

 

Al latte insomma sono associate tutte immagini vitali e positive che alludono a uno stadio del corpo e della mente in via di sviluppo, anche nel caso della perifrasi ironica “latte dei vecchi” per indicare il vino. Da dove allora il significato dell’espressione far venire/sentirsi il latte alle ginocchia per indicare qualcosa di terribilmente noioso, fastidioso o peggio di stancante, insopportabile? Il Tommaseo-Bellini (Dizionario della Lingua italiana, 1861-1879) fra l’altro cataloga la locuzione come volgare, e attestazioni in letteratura sono praticamente inesistenti. La ritroviamo in  Alberto Cantoni (scrittore mantovano umorista considerato precursore di Pirandello) “mi son sentito venire il latte alle ginocchia, e ho domandato così per creanza e per onor di firma: che posto ho dunque io nel tuo album?”, e nel torinese scapigliato Remigio Zena “Non fosse in vena o avesse i dolori di pancia, il fisco, un coso stitico, degno anche pel personale del mestiere che faceva, se la sbrigò in poche parole aggiustate alla meglio, come se masticasse castagne secche, da far venire il latte ai ginocchi, dando però botte da orbo addosso alla Bricicca, questo era in regola, trattandola peggio che se avesse rubato dal suo scoglio la Lanterna di Genova”. L’assenza negli autori di una locuzione che tutti bene conosciamo e sappiamo individuare emotivamente ci lascia un po’ perplessi, proviamo delle ipotesi di spiegazione.

 

La prima ci riporta a una pratica antica, quella della mungitura a mano a cui oramai in pochi assistiamo: chi mungeva teneva il secchio fra le ginocchia, seduto su uno sgabello a lato della mucca ad altezza delle mammelle. Il lavoro richiedeva perizia e di certo pazienza, fin tanto che il latte munto riempisse il secchio e arrivasse all’altezza delle ginocchia. L’azione ripetitiva poteva certo stremare il mungitore maldestramente seduto fra le bestie. Ma era un’azione necessaria al sostentamento della famiglia, con il surplus si potevano ricavare latticini (formaggio, burro) e talora anche denaro con la rivendita. Soprattutto riuscire a riempire uno o più secchi di latte era indice di prosperità e vitalità dell’allevamento o della sola mucca che si teneva in casa: insomma segno di benessere. Ci chiediamo perciò se al completo riempimento di un secchio di latte potesse essere associata l’immagine non entusiasmante che si evoca con la locuzione “farsi venire il latte alle ginocchia”.

 

L’altra ipotesi di indagine ci porta a due altre azioni. La prima: a considerare una delle caratteristiche principali del latte: il suo colore (bianco-latte), a un suo derivato aggettivale lattiginoso, e infine alla consistenza che raggiunge quando si caglia: vischiosa e aggrumata. La seconda: alla consultazione dei vocabolari. Riaprendo il buon vecchio vocabolario di latino scopriamo che lactes (al solo plurale e femminile) indica i visceri, meglio l’intestino tenue (al di sotto dell’ombelico per la precisione, Thesaurus Linguae Latinae), le budella degli animali. Con murenarum lactes, latte di murena, i latini definivano la sostanza molle e lattiginosa che si trova nelle interiora. E’ dunque probabile che l’immagine dei visceri (e forse altro!) che per stanchezza, si srotolano, allungandosi e distendendosi fino a toccare le ginocchia possa pure aver dato luogo a quella di rilassamento, noia e impotenza.

 

A voi amici lettori l’ardua sentenza!

 

Foto: Mowie Kay su Flickr.