Il caso Svevo
Maggio è tempo di simulazioni! Ma è anche il mese degli autori che hanno fatto il Novecento: Pirandello, Svevo, Montale. Purtroppo si va di fretta e le letture si affollano, si infittiscono, si sovrappongono. Per introdurre la figura e l’opera letteraria di Italo Svevo abbiamo pensato a quel giochetto che si chiama «connecting the dots», unisci i puntini. Può servire anche come percorso di narrazione dentro la poetica di uno scrittore, per l’autore della Coscienza di Zeno come altri. Una mappa, in fondo, non è che una scaletta in altre forme. Uno schema, insomma, che si può impiegare anche in classe come una sintesi di immediato utilizzo. Vediamo però come organizzare alcuni materiali (molto) generali sul romanzo di Svevo.
Collocato ai margini della geografia letteraria italiana, nella Trieste asburgica della fine dell’Ottocento, cronologicamente precedente alle esperienze di Saba, di Michelstaedter, di Slataper, Italo Svevo ha rappresentato in Italia una figura di levatura straordinaria per le sorti della narrativa novecentesca. Tuttavia i suoi romanzi, soprattutto i primi due, Una vita (1892) e Senilità (1898), dovettero subire per numerosi decenni uno strano destino. L’incomprensione della critica militante, il silenzio che circondò la sua opera di romanziere-dilettante, costrinsero Svevo a un lungo periodo di apparente inattività, a un vero e proprio «abbandono» della letteratura.
Personaggio schivo e del tutto alieno da una professionalità di tipo tradizionale, Svevo rifiutò l’estenuazione decadente e la protesta espressionistica delle avanguardie, non subì l’influenza del frammentismo lirico degli scrittori «vociani», non partecipò a quel clima di sovversivismo intellettuale piccolo-borghese tipico della generazione nata negli anni ottanta dell’Ottocento. Nel suo isolamento triestino, la scelta del romanzo gli apparve come l’unica strada percorribile verso lo svecchiamento di una cultura ancora troppo imbevuta di ideali assoluti e di retorica, in sostanza, di dannunzianesimo. In una lettera a Valerio Jahier del dicembre 1927 Svevo scriveva: «Noi siamo una vivente protesta contro la ridicola concezione del superuomo come ci è stata gabellata (soprattutto a noi italiani)». Fedele e coerente alle letture della giovinezza, Svevo assorbì da Schopenhauer la capacità di cogliere per mezzo della letteratura gli autoinganni dell’individuo, il carattere effimero e inconsistente della volontà umana, l’eterno dominio delle passioni e delle pulsioni. Per questa ragione nella sua narrativa possiamo comunque rintracciare componenti scientifiche e razionalistiche che egli, dopo aver letto Darwin e il naturalismo francese, integra e corregge con la filosofia di Nietzsche e la psicanalisi di Freud. Ma della scienza e del pensiero moderno, Svevo respinse sempre le pretese ideologiche e le spinte totalizzanti: ne accolse invece la novità strategica e gli stimoli artistici, sempre con una forte dose di «dilettantismo» intellettuale. Ed è proprio questa componente della sua cultura, il dilettantismo appunto, a riservare gli spunti più interessanti.
Svevo può fare lo scrittore soltanto negandosi, rinunciando cioè alla funzione tradizionale del letterato, ai suoi presupposti, ai suoi privilegi; sottraendosi al mito dell’artista come creatore di oggetti preziosi, artifex di valori e illusioni. Al contrario, la sua è una letteratura di smascheramenti e di disinganni, coltivata come vizio o pratica igienica e, paradossalmente, come esercizio privato e come silenzio. Dopo diciotto anni trascorsi in banca come semplice e diligente impiegato, Svevo venne assorbito in una redditizia e prestigiosa attività industriale e commerciale, che implicò un abbandono della letteratura, ufficialmente dovuto all’insuccesso di pubblico e di critica di Senilità, il suo secondo romanzo: ma anche in questo caso lo scrittore tradiva di nuovo le buone intenzioni, e continuava a redigere i suoi diari, a prendere appunti, a stendere lavori teatrali e racconti.
In una riflessione scritta nel dicembre 1902, e ora raccolta con il titolo di Pagine di diario e sparse, Svevo rivela, e forse chiarisce meglio anche a se stesso, la ragione di questo abbandono, o sarebbe meglio dire provvisorio accantonamento, della letteratura:
Noto questo diario della mia vita di questi ultimi anni senza propormi assolutamente di pubblicarlo. Io, a quest’ora e definitivamente ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura. Io voglio soltanto attraverso a queste pagine arrivare a capirmi meglio. L’abitudine mia e di tutti gli impotenti di non saper pensare che colla penna alla mano […] mi obbliga a questo sacrificio. Dunque ancora una volta, grezzo e rigido strumento, la penna m’aiuterà ad arrivare al fondo tanto complesso del mio essere.
La scrittura, dopo la rinuncia e la crisi conseguente all’insuccesso di Senilità, assume la fisionomia di una pratica autointrospettiva e privata, volutamente non professionale e antiaccademica. Nonostante la delusione per il mancato successo di pubblico e l’interesse della critica, Svevo continuava a non poter rinunciare all’attività letteraria, fosse anche qualcosa di strettamente privato come il diario e l’autobiografia. E tutto questo non fa che confermare quanto oggi è piuttosto chiaro dai molti documenti privati dello scrittore: e cioè che un’effettiva e definitiva abdicazione nei confronti della letteratura non c’è mai stata. In realtà il silenzio di Svevo tra il 1898 e il 1923 è più un fatto aneddotico che reale: l’attività industriale e commerciale costituisce una sorta di copertura e di occultamento della sua esigenza di essere scrittore. Ancora nelle Pagine di diario e sparse, il 2 ottobre 1899, quindi subito dopo Senilità, Svevo scriveva:
Io credo, sinceramente credo, che non c’è miglior via per arrivare a scrivere sul serio che di scribacchiare giornalmente. Si deve tentar di portare a galla dall’imo del proprio essere, ogni giorno un suono, un accento, un residuo fossile o vegetale di qualche cosa che non sia il o non sia puro pensiero, che sia o non sia puro sentimento, ma bizzarria, rimpianto, un dolore, qualche cosa di sincero, anatomizzato, e tutto e non di più. Altrimenti facilmente si cade, – il giorno in cui si crede d’esser autorizzati di prender la penna – in luoghi comuni e si travia quel luogo che non fu a sufficienza disaminato. Insomma fuori della penna non c’è salvezza. Chi crede di poter fare il romanzo facendone la mezza pagina al giorno e null’altro, s’inganna a partito.
La vita sarà comunque letteraturizzata: cioè non potrà che ridursi a puro e semplice fatto di scrittura. Come nel caso della Coscienza, appunto, in cui Zeno vive l’esperienza della rappresentazione della propria vita nel senso di un’anamnesi autobiografica e di una scoperta di sé: «Scriva! Scriva! Vedrà come arriverà a vedersi intero», sono le parole del medico psicanalista che ha in cura Zeno, e che invita il paziente in un’operazione di restauro della coscienza e di ricomposizione dell’identità. La definitiva consacrazione di questa idea si ha nelle prove letterarie sveviane successive a La coscienza, ad esempio nelle Confessioni del vegliardo e negli abbozzi intitolati Il vecchione, tutti composti e realizzati in vista di un probabile ritorno al romanzo. Ancora torna la centralità della scrittura come speranza e fiducia estrema nella forza della letteratura: «L’unica parte importante della vita è il raccoglimento. Quando tutti lo comprenderanno con la chiarezza ch’io ho tutti scriveranno. La vita sarà letteraturizzata. Metà dell’umanità sarà dedicata a leggere e studiare quello che l’altra metà avrà annotato. E il raccoglimento occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto alla vita orrida vera. E se una parte dell’umanità si ribellerà e rifiuterà di leggere le elucubrazioni dell’altra, tanto meglio. Ognuno leggerà se stesso. E la vita risulterà più chiara o più oscura, ma si ripeterà, si correggerà, si cristallizzerà. […] Io voglio scrivere ancora. In queste carte metterò tutto me stesso la mia vicenda».
Ancora dopo la Coscienza, Svevo tornava a difendere la possibilità della scrittura come unico orizzonte conoscitivo e analitico dell’uomo di fronte alla crisi della realtà contemporanea.
Io non mi sento vecchio ma ho il sentimento di essere arrugginito. Devo pensare e scrivere per sentirmi vivo perché la vita che faccio fra tanta virtú che ho e che mi viene attribuita e tanti affetti e doveri che mi legano e paralizzano, mi priva di ogni libertà. […] Perciò lo scrivere sarà per me una misura di igiene cui attenderò ogni sera poco prima di prendere il purgante. E spero che le mie carte conterranno anche le parole che usualmente non dico, perché solo allora la cura sarà riuscita.
Un’altra volta io scrissi con lo stesso proposito di essere sincero che anche allora si trattava di una pratica di igiene perché quell’esercizio doveva prepararmi ad una cura psicanalitica. La cura non riuscì, ma le carte restarono. Come sono preziose! Mi pare di non aver vissuto altro che quella parte di vita che descrissi.
Non soltanto la vita avrebbe coinciso, ora più che mai, con la letteratura, ma lo scrivere avrebbe assunto i contorni di una riparazione, di un restauro della vita, e sarebbe diventata una sorta di igiene mentale e di cura di sé.