No se truova alcun homo, tanta riqeça tegna,
q’a lo dì de la morte ie vaia una castegna.

 

Girardo Patecchio da Cremona – Splanamento de li Proverbii de Salamone, XIII sec.

 

Lei mi sta scavando sotto, mi toglie la panna, la castagna da sola sopra non ha senso. Il Mont Blanc non è come un cannolo alla siciliana che c’è tutto dentro, è come uno zaino: lei se lo porta appresso per un mese e sta sicuro. Il Mont Blanc si regge su un equilibrio delicato

 

Bianca, regia di Nanni Moretti, 1984

 

 

Ai palati curiosi e alle papille più intrepide non è mai sfuggita la complessità della lingua della cucina, almeno di quella italiana. Ma ci piace solleticare questa volta l’attenzione del degustatore pigro, consumatore a volte avido a volte noncurante, o tutti e due, di quei frutti che ci arrivano sulla tavola con casuale naturalezza. Si sa, una ciliegia tira l’altra, una nocciolina tira l’altra, e via a trangugiare. E la castagna?

 

È delizia tipicamente autunnale che l’ingegno e la necessità hanno saputo adattare a tavole ricche e a tavole povere, non necessariamente a tutti gli stomaci (perché come asseriva nel ‘400 il medico e dietologo Michele Savonarola “è molto difficile da padire e se pur se ritrova il stomeco forte, dà bono nutrimento e suodo”). La sua produzione, presente lungo tutta la nostra penisola in quota collinare, l’ha resa universalmente nota sia per le sue proprietà nutritive (la castagna condivide con il fagiolo il soprannome di “carne dei poveri”) sia per le infinite forme e declinazioni che può assumere anche là dove non si produce.

 

Il castagno è originario dell’Asia Minore: furono i Greci a introdurlo in Europa, i Romani a diffonderlo capillarmente, gli ordini monastici a mantenerlo vivo per tutto il Medioevo. L’italiano castagna (spagn. castaña, port. castanha, franc. châtaigne, ted. kastanie) deriva dal latino castănea(m) a sua volta dal gr. kástanon di probabile origine preindeuropea. Un viaggio semplice, lineare e apparentemente senza intoppi. E invece studiosi accreditati hanno speso pagine e pagine, svolto indagini approfondite per riuscire a svelare il reale viaggio di questa parola. Secondo le norme fonetiche la forma càstănea originale (aggettivo femminile da càstănum, per il noto processo per cui il nome del frutto deriva dalla forma aggettivale femminile del nome della pianta) avrebbe dovuto produrre dapprima un càstnea e di seguito un càstĭnea, con una pronuncia attuale simile a qualcosa del tipo: kàstena. In realtà i dialettologi hanno dimostrato che vaste sono le aree con finale in –ena. Una ricopre un’ampia area nell’alta Italia, dalle Alpi al Po e dalla Valsesia fino al Trentino; un’altra più ridotta e frammentata si stende tra il Lazio meridionale e la provincia di Salerno. Ma al di fuori di queste zone, dove la coltivazione del castagno era fiorente, nelle campagne anche il tipo kastegna è stato ben attestato almeno fino all’inizio del 900. Perché allora il tipo castagna si impone? Castagna doveva essersi introdotto più tardi quando l’evoluzione del sistema vocalico dal latino si era compiuta, affermatosi in ambienti colti inclini ad accettare una veste fonetica assai più vicina all’originale greco. Castagna, sentito più letterario, affermatosi nei centri, si spinge dentro le valli, sfiora senza attecchire nei villaggi periferici, si impone invece nelle zone poste lungo le vie di comunicazione. E tutto questo si presume possa essere avvenuto non più del II sec. a.C., quando le popolazioni italiche cominciarono sempre più a entrare in contatto con il mondo latino. A dimostrarlo sono tracce nella toponomastica: in alcune zone appenniniche troviamo località e paesi denominati Casteneto, secondo l’evoluzione vocalica dal latino all’italiano.

 

Castagna o castegna che sia, laddove l’albero ha attecchito il suo frutto ha generato un’infinità di preparazioni, e parole, che a esso si riconducono. Perciò le castagne possono essere consumate bollite: fruva in Piemonte, tétule in lombardia, ballotte in Toscana. Se arrostite, sono caldarroste a Roma, brasché in Valtellina. E poi ancora: succiola, pattona, balogia, bruciata, mondina. Le castagne dei signori, più rare e più corpose, sono quelle che a Milano si chiamano marroni (nel riccio del castagno ci sono sempre tre castagne, nel castagno da marroni ce ne sono solo due), mentre alle fiere rinsecchite, mosciarelle o vecchioni, vendute infilzate in collane come vere leccornie; oppure a fine pasto debilitavano definitivamente le mandibole come stracaganassi in Veneto. E che dire della farina di castagne che l’Appennino tosco-emiliano ci offre in varia maniera condita e in diverse modi di cottura? Castagnacci, necci, ciacci, baldini, focacce, migliacci, oppure le mistocche o mistocchine romagnole…

 

La castagna è protagonista anche in molti detti comuni: non da ultimo “far le castagne”, equivalente del dantesco “far le fiche”. Vale spesso per cosa da poco o affare fastidioso (da cui “togliere le castagne dal fuoco”). Di sicuro non ha mai sviluppato in proprio il significato di “errore, sbaglio” come si ritrova nell’espressione assai comune “cogliere in castagna”: la deriva per estensione da quella simile “cogliere in marrone” (attestata a partire dal Cinquecento) dove in origine marrone valeva per errore, fallo. Che dire… la castagna poggia davvero su un equilibrio delicato!