A quindici anni si è innamorati di tutto; ma se di tante cose con il passare del tempo ci si può disinnamorare, l’ulivo è l’albero che ancora mi rinnova quella prima emozione ogni volta che lo ritrovo.

L’ulivo, M. Rigoni Stern, da  Arboreto salvatico

Dopo il vino è d’obbligo accogliere un’altra parola sulla nostra tavola: olio. E lo cogliamo sul fatto: parte proprio in questi giorni la raccolta delle olive secondo tempo e modi che le diverse cultivar (le varietà selezionate della pianta, oltre 600 in Italia) richiedono. Nel giro di uno o due giorni al massimo avremo nuovo quel liquido che lega, unisce esalta tutti gli ingredienti della nostra tavola: la terra ci regala questo succo dorato e prezioso prima del riposo invernale.

Olio e vino, ulivo e vite: coppie consolidate sulle nostre tavole e nel nostro paesaggio geografico, viaggiatori infaticabili sulle vie del commercio che ci han portato dalla grecità al mondo contemporaneo. Dal forte carattere mediterraneo, molto hanno in comune nelle rispettive vicende storiche e culturali, ma molto anche di diverso. Quando pensiamo al vino pensiamo alla vite e all’uva (frodi a parte), ma quando pensiamo all’olio non pensiamo solo all’ulivo: l’ingegno dell’uomo ha saputo ricavarlo dal mais, dalla colza, dalle arachidi, dal girasole, dalla noce (orribile lo definiva Cicerone per il gusto acre), dalla mandorla, dal mirto, dal rafano e fino dal riso. Ognuno vantando specifiche qualità organolettiche. La lotta per l’umile e sacro ulivo, l’albero di Atena-Minerva, dea vergine intenta al presidio dei lavori femminili, venerata sia in tempi di pace che di guerra, si fa impari! Sorte ingrata per una pianta che da Plinio il Vecchio a Petrarca passando per la simbologia cristiana è emblema di pace e sacralità.

Qui per noi l’olio è solo quello di oliva, così come lo era per il romano Columella e come lo era l’olio che grondava dalle ricette di Apicio nel suo De re coquinaria. Una cosa è certa: l’olio per trovar il suo posto a tavola e la sua strada nel mondo ha dovuto faticare ben più del cugino vino, guerreggiare con acerrimi rivali di origine animale (burro, lardo e strutto) arrivando tuttavia a trionfare, dopo una secolare segregazione, grazie all’alleanza con la dieta mediterranea. Ma è tutta e solo una questione di polifenoli, acidi grassi saturi e insaturi?
Della potenzialità commerciale dell’olio ne seppero qualcosa i Greci, gli Etruschi e i Romani, e successivamente la Repubblica di Genova per gli scambi nella parte tirrenica, e la più longeva Repubblica di Venezia in grado di creare vie di trasporto alternative a quelle del vino per rifornire con le produzioni dell’Adriatico le zone del Nord europeo. Tuttavia successe qualcosa nella storia e nella storia del gusto che relegò l’olio alle tavole dei ceti più elevati. Si stava facendo strada l’impiego del burro e del lardo portato dalle popolazioni germaniche avvezze storicamente più al consumo di  prodotti di origine animale (per questo “barbare” dice Plinio) e infastidite dal sapore intenso dell’olio di oliva. Per chi se lo poteva permettere, l’olio, “grasso magro”, divenne il condimento per i giorni di osservanza, secondo la precettistica del calendario liturgico, e, per chi ne amava il sapore, una vera e propria ghiottoneria: un ulteriore peccato di gola da cui ci si doveva per penitenza astenere. Non bastasse, il burro (derivato del latte) cominciò a insinuarsi come grasso “magro” in zone prima insospettabili: Bartolomeo Scappi, cuoco personale di Pio V, ci testimonia che burro e olio possono essere usati per cucinare qualsiasi vivanda. Tuttavia non mancano accorati appelli per il consumo dell’olio: il burro non è cosa da grado signorile, oltreché nuocere allo stomaco e alla digestione, ricorda a metà Quattrocento il padovano Michele Savonarola preoccupato per il rango e la salute del suo signore, Borso d’Este.

In seguito, con l’affermarsi della cucina francese, che probabilmente aveva conosciuto l’impiego di oli di oliva scadenti destinati all’esportazione, si andò consolidando l’uso di condimenti di origine animale. E se un povero si fosse mai sognato di riempirsi lo stomaco, lo avrebbe fatto condendo gli agognati piatti con dei bei pezzi di lardo, non certo con l’olio. Testimone di questa commistione ormai consolidata nei secoli è Pellegrino Artusi che invita ciascuno a usare “l’unto” come più gli aggrada: l’olio dove è buono, burro o lardo dove per tradizione si è abituati ad impiegarlo. Quale olio?
Nelle note spese per il rifornimento di banchetti signorili una cosa salta all’occhio. Della quantità di vino acquistata viene quasi sempre specificata la qualità (vin greco, vin leggero, malvasia), dell’olio (o oglio) si indica solo la quantità. Eppure le varietà di olive del Bel Paese erano e sono tante: arnasca, taggiasca, carboncella, ciliegino, moraiolo, corniola, rotondella, ogliarola, nocellara, bosana
Alla domanda “Cara, mi passi l’olio?” la possibile risposta del moderno consumatore consapevole potrebbe essere “Quale caro? Quello dolce? O quello dolce con nota piccante? O quello piccante con nota dolce o quello decisamente piccante? Ah!! Abbiamo anche un blended da sette cultivar diverse!” In Italia disponiamo di una produzione di 39 oli DOP e un IGP tra cui scegliere,  portafoglio permettendo. Auguro un buono, sano olio extravergine di oliva a tutti! Con moderazione e diffidando delle imitazioni.