Esiste un fenomeno, ormai piuttosto diffuso e codificato nella letteratura di lingua inglese di genere Young Adult, che rischia di contaminare anche l’italiano e riguarda uno slittamento di significato, non ancora registrato dai dizionari, in certe parole o espressioni. Alcuni verbi sono infatti segnali o simboli di “altro”, e di frequente è scorretto o vano tradurli attingendo in maniera automatica al repertorio dei vocabolari. Ma entriamo nel dettaglio.

Show, don’t tell! è la raccomandazione che le scuole di scrittura creativa rivolgono agli aspiranti scrittori di madrelingua inglese. L’invito, che in italiano si traduce con Mostra, non raccontare!, oppure Presenta, non evocare!, è a evitare l’astratto e cercare il concreto, a scandire la narrazione privilegiando il racconto per immagini, per inquadrature, riducendo al minimo le “intrusioni” di aggettivi e avverbi: mostrando al lettore cosa succede, lo si immerge nella storia promuovendolo a testimone, quando non addirittura a co-protagonista che giudica in base a ciò che vede.
In un certo tipo di letteratura, quella definita per convenzione “di intrattenimento”, esiste ormai un vero e proprio repertorio di espressioni del viso, mosse, gesti, elementi di comunicazione non verbale che associati ai personaggi ne caratterizzano le emozioni e i sentimenti – oltre a scandire, all’interno della narrazione, il ritmo dei dialoghi o delle scene. Per questo a prima vista può sembrare che in certi romanzi i personaggi non facciano altro che sfregarsi le mani, sospirare, mordersi le labbra, deglutire, alzare un sopracciglio o schiarirsi la voce:

I frowned. “Did Jared tell you that? He shouldn’t have”.
Jacob bit his lips. “I guess I shouldn’t laugh. It was funny, though”.
“Some Soul mate”.
He sighed. […]

L’attenzione si concentra sul singolo gesto, che a forza di ripetizioni, – nel libro da cui è tratta la citazione compaiono 184 sigh o sighed, quasi uno ogni tre pagine – risulta esasperato come nel cinema muto, nei cartoni animati o nelle telenovelas, in cui, diciamolo, gli attori non brillano per naturalezza, e finisce per trasformare i personaggi in altro da sé. Inoltre la frequenza delle ripetizioni evoca più che altro la stereotipizzazione incontrollata del tic e trasferisce tratti nevrotici a gran parte delle figure presentate.
Anche senza essere esperti di fisiognomica, si capisce che i singoli gesti possono assumere in momenti e in contesti diversi significati diversi. Si pensi alle braccia conserte, che possono essere sinonimo di chiusura, di aggressività, di disagio, ma le braccia si incrociano anche quando si ha freddo. Le labbra invece si serrano in un gesto di stizza, di concentrazione o di dolore. E non solo: ci sono movimenti, gesti, posture che sono condivise e capite da tutti, indipendentemente dalla provenienza geografica o dal gruppo sociale, e altri invece che cambiano a seconda della cultura. Il segno della “V” è stato diffuso durante la Seconda Guerra Mondiale da Winston Churchill in segno di vittoria, mentre in alcuni paesi è un segno di offesa.
Ed è qui che il traduttore deve intervenire, in primo luogo per mediare la funzione del gesto, per disambiguarla, ma in genere anche per evitare che il passaggio a un’altra lingua, a un’altra cultura, tolga dignità ai personaggi e li trasformi in macchiette. Occorre perciò tornare a to tell e rinunciare in qualche caso a to show, compiendo un intervento non obbligatorio ma in certi contesti necessario, talvolta indispensabile, specie se la lingua di arrivo è l’italiano, la lingua del bel canto: meglio evitare il più possibile le ripetizioni cacofoniche e – vizio deprecabile che affligge anche un certo tipo di letteratura che in italiano nasce – il calco di strutture e vezzi che, se nella lingua di partenza non infastidiscono, in quella d’arrivo disturbano.

stephanie-meyer-trilogia

Nella saga di Twilight di Stephenie Meyer, i personaggi ripetono in maniera quasi ossessiva, tra gli altri, tre gesti: to shrug (60 occorrenze su 640 pagine di Eclipse, da noi tradotto a sei mani insieme a Federica D’Alessio), to frown (68 occorrenze) e to roll one’s eyes (45 occorrenze, ma con la parola eyes impiegata in ben 479 “primi piani”).

“It’s not like that with Jacob”
“For you, maybe. But for Jacob…”
I frowned. “Jacob knows how I feel […]”

È stato reso con:

“Non c’è niente fra me e Jacob”
“Per te, forse. Ma per Jacob…”
“Jacob conosce i miei sentimenti […]” risposi contrariata.

Il gesto puro e semplice, l’accigliarsi, il guardare torvo, esprime la contrarietà esplicitata con l’aggettivo.

Altrove, con il senno di poi, avremmo potuto osare di più e attenerci meno alla lettera:

I frowned in disapproval.

diventa

Aggrottai le sopracciglia in segno di disapprovazione

Ma avrebbe potuto essere, più liberamente

Protestai, con un’occhiataccia.

E ancora:

“Hey, hey, none of that. I’m not touching your retirement, Dad. I’ve got my college fund.” What was left of it — and there hadn’t been much to begin with.
Charlie frowned.

In italiano è

«Alt, alt, fermo lì. La tua pensione non si tocca, papà. Ho anch’io dei risparmi per il college». O meglio, ciò che restava di una cifra che non era mai stata granché.
Charlie si rabbuiò.

Nella stessa area semantica dell’esasperato/irritato c’è più di un roll one’s eyes:

“This one guy — well, you’re going to have to see it to know what I’m talking about —” Angela rolled her eyes at me.
“See you at school,” I said with a nervous laugh.”

Diventa

“ […] E il protagonista, be’, lo devi vedere per capire…!. Angela mi lanciò un’occhiata esasperata. “Ci vediamo a scuola”, dissi con una risata nervosa.

Quanto agli shrug:

I looked down, and realized that the crystal heart was facing up on my wrist.
I shrugged guiltily. “Another graduation present.”

Può diventare

Abbassai lo sguardo e notai che dal mio polso penzolava il cuore di cristallo.
«Un altro regalo per il diploma» risposi, imbarazzata.

Infine, un paio di possibili rese per il roll one’s eyes, tratte dagli episodi successivi della saga:

“What? You don’t want to be […] BFFs?” […]
I rolled my eyes, not totally sure if he was making fun of the
expression or of me.

«Come, non vuoi essere la mia amicissima del cuore?» […]
Lo guardai con sufficienza, senza capire se ridesse di me o dell’espressione che aveva usato.

His answer made me roll my eyes. Love. Right.

La sua risposta mi lasciò basita: «L’amore». Bravo.

Questo genere di interventi palesa, seppure in misura minima, la presenza del traduttore, ma troviamo che ciò sia giustificato dal contesto linguistico, culturale, editoriale in cui la letteratura Young Adult si colloca, nonché dal pubblico a cui si rivolge: approfittare della duttilità e della ricchezza dell’italiano per sciogliere certi nodi dell’inglese aiuta chi traduce e, in fondo, arricchisce chi legge.

©Luca Fusari & Chiara Marmugi