Quando la traduzione viene… spontaneamente
Una delle poche, stabili certezze sull’attività del tradurre letteratura, sin da quando l’ho intrapresa, è che nel suo ambito c’è ben poco di assoluto. La natura essenzialmente fuzzy e relativa permea la traduzione a tutti i livelli e discende, con ogni probabilità, dall’originario paradosso che ne presiede la prassi e si riverbera in ogni manifestazione di questa attività teoricamente impossibile ed empiricamente non solo possibile, ma necessaria, nonostante le premesse.
Così, chi si avventura tra gli scogli delle differenze semantico-culturali e idiosincratiche di due sistemi linguistici può servirsi di strumenti di navigazione molto meno precisi o affidabili di un sestante e di una bussola e impara ben presto che deve continuamente ritararli, in corso d’opera, con l’ambiente stesso in cui si trova, ovvero con il contesto, l’unico, variabile, elusivo e difficile banco di prova che il traduttore ha a disposizione.
Nelle rare occasioni in cui uso la panoplia di dizionari bilingui (sia cartacei che digitali) cui abbiamo ormai accesso, ho la costante consapevolezza che la risposta che vi troverò sarà sempre un’approssimazione da verificare e contestualizzare nel nuovo testo che sto elaborando. È un riflesso automatico, acquisito in anni di esperienza e, di solito, non registro più le occorrenze che confermano il fenomeno, ma qualche anno fa ricordo un esempio particolarmente significativo dello scarto tra risposta codificata e soluzione «su misura», sintonizzata cioè al testo che stavo traducendo e non necessariamente valida in altri casi.
Stavo traducendo alcune poesie di Tess Gallagher per un’antologia di suoi testi. Compito impegnativo per la peculiarità della voce e delle sfumature che rendono inconfondibile l’autrice, ma gradito per i vincoli affettivi sviluppati in anni di amicizia, vincoli che trasformano gli ostacoli in stimolanti sfide a una resa quanto più efficace possibile. In particolare stavo traducendo una poesia intitolata Willingly. Di norma traduco i titoli solo alla fine, ma in questo caso la mia abitudine era rafforzata dalla consapevolezza della difficoltà di rendere questo avverbio, la cui pregnanza era confermata dalla posizione in cui si trovava nel testo. La poesia, con la caratteristica miscela di lirismo e narrativa, descrive con ricchezza di dettagli le sensazioni che la voce narrante prova nello svegliarsi all’interno della sua casa mentre fuori questa viene dipinta. Nella quarta e ultima strofa la situazione viene così sintetizzata:
This is ownership, you think, arriving
in the heady afterlife of paint smell.
A deep opening goes on in you.
Some paint has dropped onto your shoulder
as though light concealed an unsuspected
weight. You think it has fallen through
you. You think you have agreed to this,
what has been done with your life, willingly.
Ora, le soluzioni che si presentavano automaticamente per rendere quell’avverbio finale non erano certo difficili. «Volentieri» o «di buon grado» o «con gioia» sono buoni candidati come traducenti, considerando anche che permettono di sfuggire alla desinenza -mente che in italiano appesantisce la resa degli avverbi. Però, nessuna delle proposte pescate sull’asse sinonimico «normale» sembrava adattarsi al verso finale e chiudere il circuito trasformandosi anche nel titolo della poesia (e della raccolta in cui è apparsa). Né come senso, né come suono quei traducenti sembravano rendere in modo adeguato il significato dell’originale e armonizzarsi con il resto della composizione. Non convinto da nessuna delle alternative e non trovandone lì per lì altre, lasciai in bianco la chiusa e passai oltre, affidando al subconscio linguistico il compito di risolvere il problema a tempo debito. Con puntualità, la soluzione scattò dopo una notte di sonno e mi sono svegliato all’alba con una parola inaspettata, proveniente da un campo semantico attiguo, che si proponeva con l’insistenza di un motivetto musicale a riempire il vuoto e i dubbi che mi avevano tormentato il giorno prima.
Il senso del possesso è questo, pensi: arrivare
nell’inebriante dopovita dell’odore della tinta.
Qualcosa si apre in fondo a te.
Un po’ di tinta ti è caduta sulla spalla
come se la luce celasse un peso insospettato.
Sei convinta ti abbia attraversato il corpo.
Sei convinta di aver dato il tuo consenso a questo,
a quel che è stato fatto della tua vita, spontaneamente.
Sottoposi la soluzione a Tess che, pur non sapendo l’italiano, approvò la scelta con entusiasmo, basandosi solo sul proprio istinto musicale. E così quell’avverbio che si era presentato «spontaneamente» a risolvere il dilemma finì per entrare nella traduzione a sigillare la poesia, il titolo della stessa e anche l’antologia di testi della Gallagher pubblicata da Donzelli nel 1999.
© Riccardo Duranti