Ho iniziato a scrivere il mio primo romanzo due anni fa. Volevo che fosse un libro di grande letteratura ma parlasse a tutti, che facesse ridere ma smuovesse le coscienze, che usasse una lingua nuova ma rispettosa delle tradizioni. Avevo le idee piuttosto confuse. Di una cosa, però, ero sicuro: oltre al protagonista Sauro (un trentenne che, dopo anni di isolamento, fa ritorno al paese natale perché chiamato a risolvere una questione improvvisa) ci sarebbe stato un personaggio secondario di nome Ilario.

Chi era Ilario? Quarantenne, single, reticente a parlare della propria famiglia e con un talento naturale nel comporre jingles inutili. All’inizio della storia, Ilario dice di aver scoperto di avere origini ebraiche e di essere deciso a convertirsi. I colleghi, convinti che prima o poi desisterà da questa assurdità, fanno finta di niente. Se Sauro fosse stato il mio Don Chisciotte, perso in una terra che non riconosce, Ilario avrebbe fatto Sancho Panza.

Perciò, mentre Ilario si iscriveva a un corso di yiddish, io leggevo Moni Ovadia e Mordecai Richler; mentre lui appendeva un poster di Barbara Streisand in ufficio, io cantavo Woman in love per strada; mentre lui recitava la Torah, io raccontavo barzellette ai miei amici – “conoscete quella del brodo di pollo?, e quella della spia che sembra un russo e invece è un nero?” – senza riuscire a farli ridere una sola volta. In capo a qualche settimana, Ilario era diventato un personaggio squinternato ma simpatico, patetico ma in grado di suscitare compassione: in sostanza, un’ottima spalla comico-grottesca. Presto, inoltre, avrebbe calato il proprio asso nella manica: il padre con cui non parlava da vent’anni stava morendo e lui, per non affrontarlo, si era inventato queste nuove radici. Una cosa alla Ubriaco d’amore, se avete presente il film.

La parola “morte” arrivò nel mio romanzo come una maestra saccente che ruba di mano il foglio bianco all’allievo che brontola: “Dovevo ancora finire!”. Di colpo, capii che tirare in ballo una cosa così seria come la morte, dopo pagine e pagine scanzonate (ne avevo scritte una sessantina), aveva un solo significato: come Ilario, neanche io avevo avuto il coraggio di affrontare quello che si nascondeva dentro di me.

Seguirono giorni nerissimi. Mi alzavo tardi. Passavo ore davanti alla tv. L’unica cosa che facevo era sfogliare il giornale alla ricerca di articoli di cronaca che parlassero di malati di asbestosi o mesotelioma della pleura (malattie causate dall’inalazione di fibre d’amianto) perché da mesi ne volevo fare un reportage. Un documentario, magari. Quando seppi che si era ammalato il padre di una mia amica, sentii che Sauro e Ilario non potevano più camminare l’uno accanto all’altro. Senza accorgermene, avevo finito per creare due Don Chisciotte: due personaggi che si rifiutavano di far parte del mondo che li circondava e che ora, per quella cocciutaggine così uguale e ostentata, mi innervosivano. La soluzione era chiara: uno dei due doveva andarsene. Non potendo fare a meno del protagonista, la scelta ricadeva su Ilario. Tuttavia, dopo aver imparato a riconoscere i tipi di carne kosher e le tecniche di macellazioni shechitah, studiato il bar-miztvah, e digitato persino la parola circoncisione su youtube (prima di chiudere tutto), l’idea di rinunciarvi mi mandava in bestia.

Poi mi tornò in mente una cosa che era successa a un mio compagno di liceo.
Si era fatto mettere un piercing sul sopracciglio; lo aveva portato appena qualche mese quando, mentre si sciacquava via il sapone dalla faccia, sentì qualcosa cadere e tintinnare sul bordo del lavandino: senza rivoli di sangue né fitte di dolore, il piercing era caduto. Il suo corpo, silenziosamente, era riuscito a rigettare il corpo estraneo.

Tirai fuori dal cassetto le pagine che avevo scritto e le rilessi da capo cercando di mettere a fuoco: ambientazione, protagonista, motore dell’azione, tema, parabola di sviluppo… tutto ruotava intorno a Sauro. Rapidamente, ma con tatto, spogliai Ilario di tutte le sue caratteristiche: staccai il poster di Barbara Streisand e lo trasformai in uno di David Bowie per la camera di Sauro; cancellai il padre dalla sua memoria e lo collocai in quella del protagonista. Il romanzo sarebbe stata la storia di un figlio che torna nel paese in cui era cresciuto per andare a parlare con il padre, malato di asbestosi, che non vede da vent’anni.

Portai Ilario sul ciglio delle pagine che avevo scritto per lui (che adesso non arrivavano a trenta), vidi scorrermi davanti agli occhi tutte le scene in cui compariva e quelle che avrei scritto in futuro, e gli diedi una spinta. Come una piccola barca a remi appena tolta l’ancora, il romanzo oscillò bruscamente, poi trovò equilibrio, e acquistò velocità e sicurezza; e io con lui. Fino alla scorsa settimana.

Mentre stavo uscendo dal cinema, vidi il mio vecchio compagno di liceo a braccetto con una ragazza: quando mi avvicinai per salutarlo notai che, sotto il labbro inferiore, aveva un nuovo piercing. “Magari avevo solo scelto il posto sbagliato”, disse spingendolo in fuori con la lingua. Quel giorno, mentre camminavo fischiettando Woman in love, immaginai un racconto in cui un quarantenne, di punto in bianco, dopo esser stato abbandonato dalla moglie, inizia a raccontare di avere origini ebraiche e a crederci a tal punto che, sfidato dai colleghi, parte per la Terra Santa, con l’idea di convertirsi. Il finale, un incontro-serenata con Barbara Streisand, lo avrebbe riconciliato con le sue vere origini. Strappai un pagina dal giornale che stavo leggendo e mi appuntai l’incipit del racconto. Poi andai a mangiarmi un gelato.

© Marco Amerighi