L’intera baracca si squassa dalle fondamenta […] perché entro cinque minuti inizia la distribuzione del pane, del pane-Brot-Broit-chleb-pain-lechem-kenyér, del sacro blocchetto grigio

P.Levi, Se questo è un uomo

Litterae non dant panem

 

E dopo vino e olio, il pane! Il terzo degli elementi simbolo dell’identità e civiltà mediterranea, ma anche del ritorno ad una moderna frugalità dopo tanta superflua opulenza. I celiaci non ce ne vorranno.

Nato azimo sulle sponde del Nilo 8.000 anni fa, lievitato per provvida smemoratezza di una massaia egizia, il pane nel suo viaggio dall’antico Egitto, alla Grecia e per tutto il bacino del Mediterraneo fino all’Italia, all’Europa e al mondo intero riproduce nella sua fragranza e varietà un universo di significati trasversali a ogni epoca, cultura e religione. Nella sua oscillazione fra sacro e profano indica il cibo per eccellenza. E non può essere diversamente perché racchiude in sé tutti gli elementi: frutto della fatica dell’uomo riverso sulla terra che coltiva, dell’aria e del sole che maturano le spighe del grano, dell’acqua che impasta le farine, del fuoco che lo cuoce. Proprio per questo è il cibo più metaforico in assoluto, dagli ebrei nel loro viatico nel deserto sotto forma di manna, ai mussulmani, e ai cattolici. E di questi significati ne è ben consapevole il potere civile. Così ne arguì Giovenale nel I sec. D.C. il motto “panem et circensem” e poi Lorenzo il Magnifico (pane e feste tengono il popol quieto): quando manca il pane si assalgono i forni ci narra Manzoni, e ce lo confermano tante rivoluzioni nella storia. Pane come strumento di controllo (il diritto di cottura del pane era regolamentato dalle autorità municipali che per questo ne riscuotevano una tassa), pane come premio meritato e pane come miseria sia economica che morale. Ne sapeva qualcosa il conte Ugolino del dantesco Inferno, e lo stesso Dante dell’esilio che proverà “sì come sa di sale lo pane altrui”, lui poi abituato a mangiarlo sciocco (senza sale). Pane bianco e pane nero, due attributi per due tavole diverse: quella dei ricchi e dei poveri, della città e della campagna. Nella rincorsa alla ricerca di cibi sani e naturali, nella riscoperta di sapori antichi e tradizionali, cosa è diventato il pane, ricco di carboidrati e nemico della linea?

Secondo la normativa vigente, e senza entrar troppo in dettagli di carattere merceologico, si distinguono per la vendita presso i nostri fornai (o panettieri, ovvero in quel fastoso tripudio che è divenuta l’arte bianca) due tipi di pane: il comune e lo speciale. Nella categoria comune rientrano i pani preparati con farina di frumento (nel caso dell’integrale con sfarinati di grano duro), sale, acqua. Per pane speciale si intende quello confezionato non solo con l’aggiunta di olio, olive, noci, latte, zucca, e chi più ne ha più ne metta, ma sopratutto quello ottenuto dall’aggiunta alla farina di frumento (a seconda della durezza “0”, “00”, “1”) di farine speciali: quelle di segale, avena, farro, miglio, soia, riso, mais, kamut tanto per restare nei cereali (ma ricordiamo anche quella di patate). Al consumatore informato e consapevole non sfugge la salubrità del secondo rispetto al primo. E nemmeno il prezzo. Fino a non molto tempo fa le cose non stavano propriamente così. Il pane bianco confezionato con la sola farina di frumento era vitto destinato alle tavole dei ricchi (che disponevano pure di companatico), fossero essi ricchi di città o campagna. A tutti gli altri, ed erano tanti, era destinato il pane “nero”o “bigio”: quello di farine da cereali minori come appunto segale, avena, farro, miglio, sorgo. E questo non solo dall’Egitto fino all’affermazione del grano (o frumento) come coltura estensiva nel Medioevo, ma per tutto il XX secolo. A questi tanti poco importava che fosse lievitato con lievito madre, o artificiale (lievito di birra) o chimico: argilla e residui vari erano buoni pur di averne in maggior quantità. Allora il pane durava giorni, non veniva gettato o posto rovescio in tavola, e, se cadeva, veniva subito baciato, con il sacro rispetto dovuto alle reliquie. C’era anche a chi andava peggio: a questi restava solo la polenta, da Nord a Sud d’Italia.

A tavola! Con un buon pezzo di pane un poco abbrustolito (magari con quello DOP di Altamura o IGP casereccio di Genzano) imbevuto di vino, con sopra del sale, e, se proprio vogliamo far festa, un filino di olio. Così i miei nonni si ritempravano al rientro dal lavoro dei campi. E non avevamo problemi di linea.