Se c’è nel dizionario, allora è corretto?
Nell’ambito dello studio di una lingua, si parla spesso della presenza di due approcci differenti: quello prescrittivo e quello descrittivo.
L’approccio prescrittivo [dal latino praescriptivu(m), da praescriptu(m), participio passato di praescrībere ‘prescrivere’, propriamente ‘scrivere avanti o prima’, 1673] punta a fornire le regole secondo le quali una lingua deve funzionare: enuncia, per esempio, quale sia la scelta corretta e quale quella scorretta, magari nella forma “si dice così e non si dice così”: “si dice pudìco, non pùdico”. Sono per necessità tendenti verso il prescrittivo (anche se con i dovuti distinguo) le grammatiche scolastiche (a scuola, del resto, occorre studiare le regole… per poi eventualmente trasgredirle) e alcuni manuali che sono, fin dal titolo, piuttosto espliciti nelle intenzioni, come il mitico “Si dice o non si dice?” di Aldo Gabrielli.
L’approccio descrittivo [dal latino tardo descriptīvu(m), da descrīptus ‘descritto’, participio passato di descrībere ‘scrivere da un modello, trascrivere, copiare’ 1374] funziona, apparentemente, all’opposto: il linguista, il grammatico, il lessicografo osservano la realtà della lingua – ossia il modo in cui essa viene usata – e in base a ciò che hanno osservato enunciano una regola. I vocabolari, per fare un solo esempio, sono tendenzialmente descrittivi, vengono cioè compilati in base all’uso reale delle parole che viene riscontrato tramite strumenti statistici (ne riparleremo in un altro post): in altre parole, se nel dizionario è finito il lemma dronìsta ‘pilota di droni’ non è per un capriccio del compilatore del dizionario, ma perché quel termine ricorre nell’uso vivo dei parlanti in quantità statisticamente rilevante.
Poiché il dizionario è generalmente uno strumento descrittivo, questo significa che potranno esservi riportate anche forme magari non corrette secondo la norma, ma che hanno un’alta incidenza nell’uso. Questo, ovviamente, di solito sarà esplicitato in qualche modo. Facciamo un esempio: nello Zingarelli si trova il lemma salsìccia e, accanto, anche salcìccia; questo non significa che la seconda forma sia corretta quanto la prima, ma piuttosto che questa variante è talmente diffusa da meritare menzione nel vocabolario. A guardare con attenzione, accanto alla forma salcìccia è riportata l’abbreviazione pop. cioè popolare, che indica termini molto comuni nell’uso, ma che sarebbe meglio riservare a contesti di medio-bassa formalità (è meglio evitarli in un tema a scuola o in un curriculum vitae, insomma).
A ben guardare, la questione prescrittivismo vs. descrittivismo linguistico ripropone una falsa dicotomia. La realtà sta da qualche parte nel mezzo: le regole linguistiche, infatti, si sono in buona parte create e si creano in base a un uso che, a un certo momento, diventa norma. Il sistema funziona, generalmente, in base a una sorta di “buon senso linguistico” della massa dei parlanti, che usando la lingua tendono ad adattarla alle loro esigenze.
Potremmo affermare, come fa lo scrittore David Foster Wallace, che la lingua nasce e si evolve per motivi quasi “biologici”: «Teniamo a mente che la lingua non è nata perché i nostri pelosi antenati se ne stavano seduti […] senza niente di meglio da fare. La lingua è stata inventata per servire certi scopi specifici: “Quel fungo è velenoso”; “Se batti insieme queste due pietre puoi accendere un fuoco”; “Questo riparo è mio!” e così via. È evidente che, poiché le comunità linguistiche si evolvono nel corso del tempo, esse scoprono che certi modi di usare la lingua sono migliori di altri – non migliori a priori, ma migliori relativamente agli scopi della comunità.» [D.F.W., Autorità e uso della lingua, in Considera l’aragosta e altri saggi, Einaudi, Torino 2006]. Già: la lingua si evolve, si modifica, e di conseguenza muta anche la norma, anche se magari più lentamente. E tutto questo è perfettamente normale, e accade in ogni lingua viva.
A conti fatti, non ha senso né essere ciecamente prescrittivisti (“È così perché me lo ha insegnato la mia maestra trent’anni fa!”; “Non si dice a me mi!”) né essere totalmente descrittivisti, considerando a priori inutili le regole della lingua e facendo dipendere tutto dall’uso. Occorre trovare una via di mezzo: un’aderenza alla norma linguistica (che è sensata perché, alla fine, permette di capirci nel migliore dei modi) sposata a un certo grado di elasticità rispetto a una serie di tollerabili devianze (per esempio, comprendendo che ci sono contesti in cui se lo sapevo mi comportavo diversamente “funziona” meglio di se lo avessi saputo mi sarei comportato diversamente, pur non essendo altrettanto “corretto”). E spesso il ruolo del linguista è valutare quando un uso possa aspirare a diventare regola, rendendo di conseguenza necessario l’aggiornamento di tale regola.
Per finire, tornando al dizionario: un vocabolario sincronico o dell’uso, come lo Zingarelli, “fotografa” un momento preciso del lessico dell’italiano elencando le parole statisticamente rilevanti nell’uso vivo di quel periodo. Le parole che vi sono riportate non hanno tutte statuto uguale, come abbiamo visto nel caso di salsiccia vs. salciccia. Questo significa che, consultando il dizionario, non basta verificare se un termine vi è registrato o meno, ma occorre anche leggere con attenzione se siano riportate indicazioni particolari riguardo all’uso di una parola o di una grafia rispetto a un’altra. Insomma, la presenza nel vocabolario non è di per sé garanzia assoluta di correttezza linguistica; per quello, è meglio consultare uno strumento diverso, con finalità apertamente prescrittive, come per esempio una grammatica scolastica.